No, i porti italiani non sono chiusi

Lo slogan che il ministro dell’Interno Matteo Salvini continua a ripetere ha fondamenti giuridici? Ne abbiamo parlato con tre esperti 

Che sia SeaWatch3, la nave della Guardia Costiera Diciotti o l’Aquarius, «i porti italiani sono e resteranno chiusi», continua a ripetere da mesi il ministro dell’Interno e vicepremier Matteo Salvini.


È così?

«No, i porti italiani non sono chiusi: non c’è nessun atto che ne certifichi la chiusura», spiega a Open Eugenio Cusumano, Assistant professor in International relations and european union studies all’Università di Leiden, nei Paesi Bassi.


«Ma è anche vero che non esiste un obbligo giuridico per l’Italia di accogliere migranti soccorsi fuori dalla sua area di ricerca e soccorso». L’Italia lo ha fatto per tanti anni «andando in qualche modo oltre i propri obblighi giuridici stricto sensu», dice Cusumano.

Ma ora le cose sono cambiate. E i 47 migranti da nove giorni a bordo della Sea Watch 3 – ora in rada di fronte alle coste siracusane – sono stati soccorsi per esempio in zona Sar (Search and Rescue) libica.

Dunque la definizione di Salvini «porti chiusi» è falsa? «Non è che non sia corretto da un punto di vista del diritto: è un traslato. Una metafora», dice Fabio Caffio, ufficiale della Marina in congedo ed esperto di diritto marittimo.

«In questo caso vuol dire che qualsiasi imbarcazione di una Ong trasportante migranti non verrà fatta entrare, ecco. Altra cosa è un provvedimento a carattere generale adottato con decreto, come prevede il codice della navigazione».

Il codice della navigazione

Secondo l’articolo 83 del codice, infatti, il ministro dei Trasporti «può limitare o vietare il transito e la sosta di navi mercantili nel mare territoriale, per motivi di ordine pubblico, di sicurezza della navigazione e, di concerto con il ministro dell’Ambiente, per motivi di protezione dell’ambiente marino, determinando le zone alle quali il divieto si estende».

Quindi – per il governo Conte – si parla di Danilo Toninelli per i Trasporti ed eventualmente del suo collega Sergio Costa per l’Ambiente. «È quello che chiedo con un’interrogazione urgente presentata a Toninelli nei giorni scorsi», dice a Open l’ex (anche se ha fatto ricorso) 5 Stelle Gregorio De Falco.

L’interrogazione dovrebbe essere urgente, ma non c’è una tempistica per la risposta. «Rilevo che dal punto di vista giuridico-normativo – al di là di qualche prassi che forse mi sfugge e che chiedo al governo – non esiste alcuna competenza in questa materia da parte del ministro degli Interni», dice De Falco.

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Ansa / Il senatore Gregorio De Falco

«Vorrei capire con il ministro competente, Toninelli, se ci siano degli atti di chiusura dei porti o di interdizione di acque del mare territoriale». Se non esistessero – si legge nell’interrogazione – «come si ritiene, o non fossero stati resi pubblici, si configurerebbe la possibilità di una lesione ai diritti umani e dunque la possibilità di agire anche presso Corti Ue».

Secondo il senatore non è un fatto «leziosamente giuridico»: «In mare non ci sono immigrati, ci sono eventualmente naufraghi. Se un peschereccio salva delle persone in mare, metà di loro hanno passaporto americano e metà il passaporto di un altro Paese, che facciamo? Li deteniamo?».

Se sulla Sea Watch ci fossero americani, russi, canadesi, brasiliani, insomma altri non-europei, staremmo ora raccontando un’altra storia?

«Un atto di chiusura dei porti sarebbe un provvedimento generale», valido per tutte le navi, non solo per quelle delle ong, dice l’ammiraglio Caffio. «Non credo sia mai successo, ma il fatto che l’ipotesi sia presente nel codice della navigazione vuol dire che è una possibilità da non escludere». I motivi possono essere vari: «ordine pubblico o emergenza sanitaria per esempio».

«È successo: in conseguenza dell’incidente della Concordia fu varato, nel 2012, il cosiddetto decreto Clini-Passera, proprio in base all’articolo 83 del codice della navigazione», spiega De Falco, all’epoca della tragedia capo sezione operativa della Capitaneria di porto di Livorno e quindi coordinatore dei soccorsi.

Era il cosiddetto decreto anti-inchini. «Il porto è un luogo di rifugio, non si può chiudere. Si può interdire un braccio di mare come avvenne in quel caso».

In punta di diritto, comunque, l’arrivo di una nave trasportante migranti – come nel caso della SeaWatch «non implica di per sé l’autorizzazione all’ingresso in un porto: è necessario il consenso dello Stato di approdo», dice ancora Caffio.

«A meno che sulla nave trasportante migranti non si verifichi un’emergenza sanitaria o di altro tipo: allora è necessario che la nave debba essere assistita, o per motivi sanitari o perché per esempio sta per affondare».

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Un soccorso a bordo di nave Aquarius, agosto 2018/Angela Gennaro

Oggi aprire quei porti «è certamente è un obbligo umanitario e un obbligo etico, ma non un obbligo giuridico», riflette Eugenio Cusumano. La Convenzione di Amburgo «esclude un obbligo per gli Stati costieri di accogliere le persone soccorse. C’è un obbligo di coordinare le operazioni Sar da parte dello Stato che è responsabile di una certa area di ricerca e soccorso, o del primo Stato che viene a conoscenza di una condizione di di stress, di un’imbarcazione in difficoltà».

Tuttavia, continua il docente, esiste un paradosso: «Gli Stati costieri o il primo centro di coordinamento che viene a conoscenza di una situazione di di stress ha un obbligo di coordinare le operazioni ma non ha l’obbligo di accettare lo sbarco delle persone soccorse nei propri porti».

E poi c’è chi invoca il blocco navale

La leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni ai porti chiusi preferisce «il blocco navale al largo delle coste della Libia per impedire ai barconi di partire».

Una soluzione altrettanto difficile da attuare secondo l’ammiraglio Fabio Caffio. «Si tratterebbe di un dispositivo navale per impedire alle imbarcazioni trasportanti migranti di continuare la navigazione verso l’Europa. È una cosa completamente diversa, che necessita dell’accordo della Libia. E la Libia non ha mai dato questo consenso».

Lo dimostra, secondo Caffio, l’operazione Eunavfor Med (Operazione Sofia), diretta dall’ammiraglio di divisione Enrico Credendino​. L’operazione prevede tre fasi: la prima è stata di monitoraggio. La seconda, da ottobre 2015, è quella in corso, in acque internazionali.

«La terza – continua Caffio – sarebbe stata in acque territoriali libiche, per interdire l’attività degli scafisti quindi fermare le imbarcazioni, sequestrarle e non far cominciare i viaggi verso l’Europa».

Una fase «mai partita perché non c’è il consenso della Libia. E poi perché ha dei risvolti a livello internazionale un po’ critici». Ovvero? «Come si fa a fermare delle imbarcazioni che vogliono continuare la navigazione? Si ricorda il caso del Sibilla nel ’97? Per fermare una nave bisogna usare la forza e usare la forza è illegale», conclude Caffio.

A bordo di nave Aquarius, agosto 2018/Angela Gennaro

Quali prospettive dunque per il Mediterraneo? «Il flusso continuerà a essere di dimensioni ridotte – dichiara Cusumano ma non si arresterà del tutto neanche nel 2019. In primavera crescerà, anche se in maniera ridotta. E si continuerà con questo tira e molla che sappiamo: le navi ong tireranno su qualche migrante, e ci sarà il mercato delle vacche indegno su chi deve prenderne 5 e chi 10».

E la Guardia costiera libica? «Continuerà a fare quello che fa ora, a meno di un tracollo delle autorità di Tripoli – tracollo che in questo momento non sono in grado di prevedere», conclude Cusumano.

«Fanno un po’ di interdizione quando possono e ogni tanto lasciano andare qualcuno come strumento di ricatto, anche per sollecitarci a continuare a investire sull’autorità di Tripoli e sull’addestramento delle loro forze navali. Se ci serviamo di loro per “esternalizzare” le frontiere, come stiamo facendo, forniamo anche un’occasione di ricattarci».

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