Gabriele Micalizzi e gli altri: cosa rischiano i ragazzi italiani che fotografano la guerra

I fotoreporter italiani come Micalizzi, ferito oggi in Siria, sono sempre più riconosciuti nel mondo, ma anche sempre meno tutelati

Gabriele Micalizzi, un fotografo di Milano, è stato ferito oggi in Siria. Stava fotografando le battaglie con cui la coalizione filo-Usa sta scacciando l'Isis dal suo ultimo bastione, nella zona di Dayr az Zor, ed è stato colpito in volto da alcune schegge di mortaio. Micalizzi, 34 anni, è un reporter di guerra e ha lavorato sui fronti più caldi: il colpo di Stato contro Mubarak in Egitto, i conflitti di Afghanistan, Libia, Gaza.


La guerra gli ha già rubato un amico, il suo collega di CesuraLab Andy Rocchelli, che 4 anni fa ha perso la vita fotografando il conflitto in Ucraina. «Nel fotogiornalismo la morte di un collega o un amico ti fa mettere in discussione il tuo lavoro, ma poi la cosa si supera», dice a Open Luca Santese, collega di Micalizzi. «Per Gabriele andare in territorio di guerra è la sua vita, e lo rimane anche se Andy ha perso la sua».


Come lui, sono tanti i giovani fotoreporter italiani che partono per il fronte. E sono sempre più bravi. Nei suoi primi 40 anni di attività, l'agenzia Magnum – una delle più importanti al mondo – aveva ammesso soltanto un italiano. Dal 2011 al 2017 è stata guidata da un nostro connazionale, il reporter romagnolo Alex Majoli, e tra i suoi membri più celebri ci sono molti italiani.

La qualità del fotogiornalismo italiano è aumentata straordinariamente negli ultimi dieci anni, ma sono pochi i giornali che comprano le fotografie e ancora meno quelli che offrono ai fotografi un contratto che li tuteli. È soprattutto grazie ai freelance se abbiamo visto le strade distrutte di Aleppo o se abbiamo dato un volto delle combattenti curde. Grazie a ragazzi e ragazze che partono senza assicurazione e senza contratto, a volte con la promessa e a volte soltanto con la speranza di vendere le foto una volta scattate.

Gabriele Micalizzi e gli altri: cosa rischiano i ragazzi italiani che fotografano la guerra foto 2

«Si parla di "inviati", ma inviati da chi? Inviati da se stessi» spiega a Open Giulio Piscitelli, fotogiornalista dell'agenzia Contrasto che ha documentato i conflitti in Siria, Egitto, Afghanistan e Kosovo. «Per i fotogiornalisti, target di rapimenti e uccisioni, il livello di sicurezza già basso, e si è abbassato ulteriormente da quando le testate non ci tutelano più»

Come Micalizzi, anche Piscitelli, 37 anni, ha visto più volte la morte in faccia: quando si è imbarcato dalla Tunisia verso l'Italia con 150 migranti e il motore del peschereccio si è rotto in mare; durante la presa di Mosul, quando gli è esplosa un'autobomba a pochi metri, o quando stava fotografando l'inizio della battaglia di Aleppo e una scheggia di mortaio gli si è infilata nel giubbotto antiproiettile. «A conti fatti posso dire che ne è valsa la pena» commenta Piscitelli.

«Ne vale la pena fino a quando l’esperienza ti colma, ti spiega delle cose. Fino a quando senti la spinta, la carica e l'adrenalina, ma soprattutto quando senti che quell'esperienza ti sta insegnando qualcosa». Questo fotografo napoletano, laureato in sociologia, fotografa i conflitti perché rappresentano per lui una chiave di lettura delle trasformazioni sociali e geopolitiche di tutto il mondo. Per lui – dice – fotografare è uno strumento per «capire».

«Quando inizi è tutto poesia, è tutto Robert Capa, ti trovi al centro del mondo, al centro dei cambiamenti della storia, sei catapultato in una realtà che è a anni luce da te e ti sembra una professione bellissima, poi ti rendi conto che oltre a essere bellissima è anche una professione», dice il fotografo.

Gran parte degli autori dei gloriosi scatti di guerra che fanno le prime pagine dei giornali fanno un secondo e un terzo lavoro. Piscitelli, che ha vinto il prestigioso Magnum Foundation Emergency Fund e pubblicato per il New York Times, Stern, Vanity Fair, ammette di non negarsi quando gli propongono di fotografare un matrimonio.

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Joao Silva, fotografo-star e stretto collaboratore del New York Times, ha dovuto fare ricorso alle donazioni dei privati per pagarsi le due protesi che hanno sostituito le sue gambe, portate via da una bomba mentre fotografava il conflitto in Afghanistan. Massimo Berruti, dopo aver coperto per anni la lotta al terrorismo in Pakistan da freelance, ha smesso di mettersi in pericolo.

«Sono diventato padre e non potevo più assumermi gli stessi rischi senza copertura assicurativa» racconta a Open. Per lui, fotografare significa «soddisfare tante curiosità, sciogliere nodi informativi, vedere le cose con i propri occhi perché non ci si accontenta di sentirsele raccontarle». I rischi di questo mestiere sono però diventati troppo alti. Commentando l'incidente di Micalizzi, Berruti conclude: «non trovo giusto che ci si debba esporre a questi livelli».

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Foto copertina: Massimo Berruti

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