Scontro Italia-Francia sui migranti? Una campagna elettorale contro il nostro potenziale alleato

Su rimpatri e ridistribuzione la Francia potrebbe essere il miglior partner per l’Italia. Ma le tensioni diplomatiche rischiano di acuire il problema invece di risolverlo. Il sociologo Sciortino spiega ad Open le ragioni

All’interno dello scontro diplomatico fra Italia e Francia riacquista importanza la questione flussi migratori, dopo che la Francia ha rifiutato di accogliere alcuni dei profughi della nave Sea Watch perché migranti economici e quindi senza le carte in regola per la richiesta d’asilo.


Abbiamo chiesto a professor Giuseppe Sciortino, sociologo, docente all’Università di Trento e autore del recente Rebus immigrazione, di spiegarci se secondo lui questo scontro può essere producente per Italia e quali sono le motivazioni della crisi.


Qual è il significato reale dello scontro fra Italia e Francia sui migranti?

«Visto che ci deve essere uno scontro dobbiamo trovare un motivo perché ci sia uno scontro. Visto che il franco coloniale non ha funzionato, allora parliamo di immigrati. E’ chiaro che in questo modo la soluzione di questi problemi si allontana, piuttosto che avvicinarsi».

Quali sono questi problemi?

«Uno è un problema strutturale delle politiche migratorie europee e ha veramente poco a che fare con la Francia. Il problema è che molti rifugiati che arrivano in Italia, o che arrivavano in Italia a seconda delle interpretazioni, lo fanno perun motivo molto semplice: perché hanno famiglia in Europa. Generalmente non ce l’hanno in Italia. Ce l’hanno in Paesi in cui c’è già un insediamento forte o in Paesi in cui c’è un insediamento di rifugiati dello stesso gruppo. E questo vuol dire per i Paesi di origine francofona, banalmente, la Francia. Per altri Paesi la Svezia, per altri Paesi la Germania. L’Italia è stata a lungo un Paese di transito. Fino al 2011 in Italia sostanzialmente di rifugiati non ce n’erano. E presumibilmente se non ci fossero gli accordi come quelli di Dublino ce ne sarebbero pochissimi ancora oggi. Quindi questa gente vuole andare in Francia. Alcuni vogliono andare in Francia, alcuni in Svizzera, alcuni in Germania, alcuni in Svezia».

Chi sono quelli che vogliono restare in Italia?

«Quelli che restano qui sono tendenzialmente quelli che non cercano di andare in Europa settentrionale sono o persone che non hanno molte reti, che sono finite nel flusso migratorio un po’ per caso, oppure persone che queste reti le hanno perse nel corso della traversata (non è infrequente visto che i viaggi durano a lungo). È evidente che dal punto di vista delle autorità italiane un transito rapido verso un altro Paese sarebbe l’ideale: ed è quello che l’Italia ha sempre fatto nei decenni precedenti. Però èinutile prendersela con il fatto che i francesi li respingano perché lo fanno perché gli accordi di Dublino dicono chiaramente che il primo Paese sicuro è quello che deve accogliere il rifugiato».

Perché Paesi come l’Italia hanno firmato all’inizio senza nessun problema gli accordi di Dublino?

«Il primo premier italiano che ha cominciato a dire “guardate che qui c’è qualcosa che non funziona”è stato Renzi. Prima di Renzi tutti i governi di centrodestra e di centrosinistra hanno firmato per un motivo semplice:di rifugiati in quei Paesi (Grecia, Italia e Spagna) ce n’erano pochi mentre ce n’erano tantissimi in Germania soprattutto. La Germania è sta la nazione che si è fatta carico del grosso dei rifugiati in Europa, poi la Francia e la Svezia. Quindi l’idea sostanzialmente di buona parte dei paesi mediterranei e dell’Est era: noi abbiamo un flusso di lavoratori, quelli hanno flussi di rifugiati. Peccato che poi il mondo cambia».

E cosa è cambiato?

«Sono arrivate le primavere arabe e i Paesi come l’Italia sono diventati quelli che ricevono numeri relativamente elevati di rifugiati».

Quindi perché prendersela con la Francia?

«Principalmente per motivi di politica interna. Se il governo fosse interessato a una politica migratoria più ragionevole la Francia è l’unico Paese con cui possiamo pensare di avere delle alleanze su moltissime cose. E infatti lo stesso Salvini disse: vogliamo l’aiuto della Francia per fare l’accordo con il Senegal».

L’accordo per le espulsioni?

«Sì. Per quanto lui abbia promesso di espellere centinaia di migliaia di irregolari, di espulsioni in Europa, non solo in Italia, se ne fanno pochissime. In Italia se ne fanno relativamente di meno e la cosa interessante che se ne fanno ancora di meno durante i governi di centrodestra. Il problema è che i rimpatri costano un sacco di soldi».

I Paesi africani collaborano?

«Molti paesi africani collaborano relativamente poco o non collaborano affatto. E non si vede perché dovrebbero collaborare perché dal loro punta di vista è una seccatura riammettere queste persone. La Francia con il Senegal ha una complessità di rapporti tale per cui, anche riammettere gli espulsi dal punto di vista senegalese ha un senso. Perché ci sono scambi culturali, commerciali, cooperazioni in vari campi. L’Italia con molti Paesi africani questo non ce l’ha. L’ideale dal punto di vista italiano sarebbe arrivare a una europeizzazione di questi accordi. Però ci sono forti resistenze proprio perché gli accordi di riammissione sono parte di un complesso di scambi articolato e quindi ogni stato che ha fatto grande fatica a negoziarlo non è che poi sia così felice di condividerlo».

Ma chi è che veramente ostacola gli accordi di redistribuzione?

«I paesi di Visegrad, cioè Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria. Cioè gli alleati sovranisti del nostro governo. Macron è stato uno dei pochi a sostenere che la redistribuzione è necessaria. Non muore dalla voglia di farla chiaramente. Però è un politico abbastanza intelligente da capire che la struttura europea dell’asilo senza la redistribuzione prima o poi crolla, se non è già crollata. Noi stiamo facendo una campagna elettorale contro il nostro potenziale alleato.È chiaro che anche loro errori ne hanno fatto, come in quel caso in cui sconfinarono in territorio italiano: ma non creerei una crisi diplomatica su queste premesse».

Quali potrebbero essere le conseguenze di questo scontro?

«Tecnicamente parlando, i cosiddetti “dubliners“, potrebbe essere rispediti in Italia. Ci sono condizioni in cui le persone posso spostarsi, ma sono molto restrittive. Quindi se lei guarda i numeri dei dublinati effettivi, che trova sul sito della Commissione europea, vede che sono molto meno del numero potenziale. In questo momento, non si sa se per solidarietà implicita o per disorganizzazione, comunque il flusso di ritorno verso l’Italia di queste persone è relativamente basso».

C’è una parte di migranti che riesce comunque a lasciare l’Italia e restare in quei Paesi?

«Sì, una parte considerevole. Almeno fino a ora. Il peggioramento della situazione diplomatica porterebbe anche a un irrigidimento su questo fronte. Gli stati europei che ricevono queste persone non applicano fino in fondo l’accordo di Dublino con la severità con cui potrebbero legalmente applicarlo. Questo si fa all’interno di una comprensione delle reciproche problematiche. Se questa comprensione sparisce è difficile poi spiegare un giorno l’arrivo di 2000 persone con voli charter in Italia. Questa potrebbe essere una conseguenza dello scontro».

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