Achille Lauro: «Io sono un buon esempio»

L’artista romano tenta di mettere un punto alle insistenti polemiche sulla sua figura: «Io sono come i tanti ragazzi della mia generazione, siamo cresciuti da soli crescendoci l’un l’altro»

I tatuaggi in faccia, la presunta canzone che inneggia all’uso di droga, i presunti calci dati al proprio pubblico: Achille Lauro, dopo il Festival di Sanremo, non ha mai avuto pace. Eppure Lauro si è sempre mostrato gentile, educato e pacato anche di fronte agli attacchi più insistenti, mantenendo un rigore e un autocontrollo invidiabili. Non sorprende quindi il suo successo tra i più giovani, non solo per la sua Rolls Royce (che ha superato i 10 milioni di ascolti in streaming ed è il secondo brano più passato in radio di Sanremo).


Achille Lauro: «Io sono un buon esempio» foto 1


Achille Lauro è un bravo ragazzo, simbolo di una generazione che subisce il fermarsi alle semplici apparenze, ai preconcetti, alle categorizzazioni del passato, così come Mahmood. Una generazione, quella di Lauro, che appare tanto stravagante esternamente, quanto ricca sul fronte dei valori, della responsabilità, della pacatezza, della generosità e della gratitudine. È proprio su questo che si concentra l’ultimo post su Instagram dell’artista, che sembra voler mettere un punto definitivo a tutte le polemiche sul suo conto.

«Sono f​​​​i​​​glio di gente onesta, il secondo di due fratelli. Mia madre é sempre stata una persona altruista, generosa, longanime. Abbiamo vissuto con altri bambini perché mia mamma prendeva in casa figli di famiglie in difficoltà, anche quando possibilità non ne aveva. Siamo figli di chi ha dedicato tutta la propria vita al lavoro, a cui tuttavia per tanti anni nessuno ha mai riconosciuto nulla. Ho ricordi di momenti in cui non si sapeva che fine avremmo fatto, se saremmo riusciti a coprire i debiti. Ricordo quando fuori fingevo di aver già cenato perché mi vergognavo a uscire e a non avere soldi per pagare il conto. Oggi ho pagato per riavere i gioielli che mia madre aveva impegnato. Quei gioielli che sua madre le aveva regalato erano l’unico ricordo che conservava di lei. Le generosità che mi è stata insegnata è la mia più grande ricchezza. Io sono come i tanti ragazzi della mia generazione, siamo cresciuti da soli crescendoci l’un l’altro. Nessuno conosce la mia vera storia. Non voglio essere un buon esempio, Io sono un buon esempio».

Una generazione “periferica” che arriva da lontano: lontano dai centri urbani e cresce e si sviluppa nelle periferie, nelle terre di (quasi) nessuno dove ci si cresce l’un l’altro, con tutte le gioie e dolori del caso. Zone in cui nessuno ti regala nulla, dove si dissimula il malessere o la povertà per vergogna di essere tagliati fuori dalle frequentazioni, cercando di aggiustarsi “alla buona”.

Luoghi dove ogni piccola conquista è sudata, e dove si impara a crescere e a destreggiarsi nella vita a volte con affanno e paura verso il futuro, lavorando e sperando di potere – un giorno – migliorare la propria condizione e rendere giustizia ai sacrifici dei propri genitori, dei cari e degli amici con cui si è cresciuti. Questo sì che finalmente vuol dire essere il buon esempio.