Un meme su Kamala Harris potrebbe aiutarci a combattere la disinformazione in rete

Perché tutti i tentativi messi in atto dai principali social media falliscono nel tentativo di arginare la disinformazione? Un meme usato per screditare la senatrice Kamala Harris che si propone di sfidare Donald Trump nel 2020, potrebbe aiutarci a capire il perché, suggerendo una soluzione

Un’analisi svolta da Benjamin T. Decker su Politico mostra come il modello del meme sia intrinsecamente collegato alla pervasività e longevità delle bufale in rete, specialmente quando sono utili alla propaganda elettorale. La capacità di questo genere di narrazioni di evolversi e riproporsi continuamente potrebbe essere sfruttata anche dai servizi di intelligence per inasprire la polarizzazione ideologica, favorendo movimenti politici e screditandone altri, come risulta anche da inchieste svolte sui bot e troll di Mosca su Twitter.

Gli «appestatori del web» sono così diventati un problema serio per i principali social network, soprattutto YouTube e Facebook che devono vedersela anche con la capacità della propaganda novax di eludere i controlli degli algoritmi. Ciclicamente si annunciano provvedimenti energici, che si rivelano puntualmente dei buchi nell’acqua.

Nella sua analisi Decker si concentra su un meme riguardante Kamala Harris, che ha annunciato la sua candidatura alle primarie per la presidenza degli Stati Uniti nel 2020. La senatrice californiana è una delle donne del partito democratico che si propongono di sfidare l’attuale presidente repubblicano Donald Trump.

La sua figura è molto controversa e i tentativi di screditarla – anche da parte di altre donne – non mancano. Così Decker fa notare un ripresentarsi generale degli stessi fenomeni che si sono visti nella campagna del 2016.

Con l’inizio della campagna 2020, sono già emersi contenuti manipolati, dirompenti e fuorvianti. I ricercatori, per esempio, hanno identificato un gruppo di account Twitter che hanno iniziato a coordinare messaggi negativi con intrecci razzisti e sessisti, diretti a vari democratici. Uno dei problemi chiave della sorveglianza di questo tipo di contenuto è che, anche se le singole piattaforme fanno la loro parte, la disinformazione è indipendente dalla piattaforma; salta da un sito all’altro, a volte scoppiando dagli angoli più bui di internet alle piazze pubbliche più aperte troppo rapidamente perché una qualsiasi azienda intervenga.

Le allusioni sull’identità americana di Kamala Harris

Nell’articolo di Politico si prende in considerazione un meme dove Kamala Harris viene paragonata a Rachel Dolezal. Su Dolezal è stato prodotto anche un documentario trasmesso da Netflix, «The Rachel Divide». Rachel è bianca ma si è sempre sentita nera e ha finto di esserlo per molti anni, inserendosi nelle organizzazioni di protesta dei neri.

A seguito di un’inchiesta giornalistica le sue vere origini vennero svelate e messe in pasto all’opinione pubblica, col risultato che la comunità nera ha di fatto isolato la donna, considerandola un esempio dell’arroganza dei bianchi, i quali vorrebbero appropriarsi persino della cultura nera.

Cosa c’entra questo con Kamala Harris? Molto poco, dal momento che la senatrice è figlia di immigrati giamaicani e indiani, ma come Obama forse non è considerata «abbastanza nera», o «abbastanza americana». Così possiamo avere una doppia lettura del meme:

  1. Kamala Harris sarebbe, anche solo metaforicamente parlando, una finta nera. In Italia si userebbe il termine «buonista»: culture diverse e diversi termini, ma i metodi sono sempre gli stessi;
  2. La lettura principale, su cui ci si è concentrati per usare il meme a scopo propagandistico: i genitori di Kamala non erano residenti da almeno cinque anni prima della sua nascita, quindi non sarebbe candidabile alla presidenza. Secondo la Costituzione americana infatti, solo chi è nato americano può essere eletto presidente degli Stati Uniti. Un tentativo simile di delegittimazione venne fatto da Trump nei confronti del suo predecessore Obama.

Decker si mette sulle tracce del meme in giro per la rete, arrivando a trovare fitte reti di attivisti politici e complottisti. Alla fine le allusioni sulla senatrice sono state ampiamente smontate dai siti di debunking americani Snopes e Politifact.

Perché la disinformazione continua ad avere la meglio

L’importante servizio svolto dai due siti per informare correttamente i cittadini, viene comunque vanificato dalla struttura stessa dei social media e dai provvedimenti, finora dimostratisi inadeguati, per impedire alla disinformazione di diffondersi. Nonostante siano già state pubblicate le smentite, i troll continuano comunque a fare il loro gioco:

Fanno scatenare piccole false informazioni in luoghi come 4chan, Reddit e Gab, dove è facile che le scintille saltino sui firewall e si spostino su piattaforme più tradizionali. Altri bad actors sono pronti a soffiare sulle fiamme quando un meme è in circolazione.

Sembra sempre più chiaro che non basta affidarsi a sistemi automatici e disclaimer di vario tipo. Decker suggerisce che si promuova una collaborazione più concreta, volta ad analizzare i contenuti sospetti fin quando cominciano a nascere nei siti e gruppi meno conosciuti, piuttosto che intervenire quando ormai è troppo tardi su piattaforme che godono già di sufficiente visibilità.

Quello che propongo è un hub multipiattaforma in cui ricercatori indipendenti e giornalisti, così come membri dei più importanti team di sicurezza dei social media, collaborino per informarsi l’un l’altro sulle informazioni riguardo a minacce emergenti analizzando hashtag, meme, video e siti web … Questi team monitorerebbero a loro volta i meme in Internet condividendo le informazioni sulla sua diffusione. Al momento dell’arrivo di contenuti non validi sulle loro piattaforme, sarebbero pronti a contrastarli, sia attraverso il fact-checking, sia attraverso il down-ranking, consentendo agli utenti di filtrare i contenuti o rimuoverli del tutto.

Un precedente importante di come la strategia proposta dall’autore possa funzionare è quello del Global Internet Forum to Counter Terrorism, nato nel 2017 per far fronte all’attività dei terroristi in rete, unendo assieme Facebook, YouTube, Twitter e Microsoft.

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