L’Italia è pronta per il possibile ritorno dei foreign fighters dell’Isis? Intervista a Stefano Dambruoso

Con la sconfitta imminente dell’Isis in Siria, alcuni foreign fighters si preparano a tornare nei Paesi d’origine. Quelli partiti dall’Italia sono circa 130, di cui 25 di nazionalità italiana ma il nostro Paese non sembra pronto ad affrontare questo problema. Ne abbiamo parlato con il magistrato e scrittore Stefano Dambruoso

La fine del Califfato è vicina. La battaglia ormai è circoscritta a pochi chilometri quadrati della Siria orientale e i militanti che ancora combattono dovrebbero essere soltanto qualche centinaio. Vinta la battaglia, bisognerà vincere la proverbiale Guerra.


La sconfitta militare non presume necessariamente la totale sparizione del gruppo. Migliaia di jihadisti sono già scappati in Iraq. Ma la fuga dei militanti Isis è un problema che va al di là dell'Iraq e la Siria: riguarda anche il possibile ritorno dei cosiddetti foreign fighters, i combattenti Isis di nazionalità straniera, nei Paesi d'origine. Tra cui l'Italia.


All'apice della sua parabola, l'Isis contava circa 60 mila combattenti da più di 110 Paesi. Tra questi circa 5-6 mila provenivano dall'Europa, soprattutto dalla Francia (circa 1.900), Regno Unito, Germania (poco meno di mille ciascuno) e Belgio (circa 500).

Secondo un rapporto Ispi (Istituto degli Studi di politica internazionale) del giugno del 2018, i combattenti partiti dall'Italia erano circa 130, di cui circa 25 erano effettivamente di nazionalità italiana, dieci dei quali dotati di doppio passaporto.

Soprattutto uomini, età media 30 anni, alcuni minorenni (il più giovane nello studio dell'Ispi aveva 16 anni), la maggior parte provenienti dal Nord, dalla Lombardia e in misura minore dal Veneto e Emilia Romagna. Pochi i convertiti all'Islam, la maggior parte frequentava almeno occasionalmente i luoghi di culto.

Alcuni sono già tornati, dando luogo a una serie di problematiche legate alla loro incarcerazione nei Paesi d'origine e la loro possibile riabilitazione. Nelle ultime settimane abbiamo già raccontato la storia di Shamima Begun, una ragazza inglese di 19 anni, partita per la Siria a 15 anni dove si è successivamente sposata con un foreign fighter olandese.

La questione è resa ancora più urgente dall'ultimatum del presidente Usa Donald Trump all'Europa che ha minacciato di liberare circa 800 combattenti Isis qualora i Paesi europei non accettassero di processarli per conto loro.

Ma l'Italia non sembra pronta ad affrontare questo problema. Sui giornali se na parla poco e, al netto delle misure previste nel recente Decreto Sicurezza, non esistono leggi che permettono di stanziare fondi pubblici per il recupero che dovrebbe seguire l'incarcerazione dei foreign fighter.

Ne abbiamo parlato con Stefano Dambruoso, magistrato esperto di terrorismo e autore di un libro pubblicato recentemente proprio sulla risposta italiana alla Jihad.

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Quali sono le misure previste in Italia per l'eventuale ritorno dei foreign fighters?

Sicuramente per i foreign fighters tornati in Italia, avendo le prove di un loro impegno per il Califfato Isis nel conflitto Siriano-Iracheno, senz'altro si aprirebbero le porte del carcere perché con una legge del 2015 ,a completamento del 270 bis del nostro codice penale, è possibile attribuire a queste persone il ruolo di associati, per cui possono essere condannati a una pena anche di 15 anni di carcere. Per quelli che dovessero essere presi ci sarebbe quindi il processo e il carcere. Ma il grande tema di oggi è cosa fare di queste persone una volta uscite dal carcere, visto che si tratta soprattutto di giovani.

Un tema sul quale l'Italia si è interrogata poco ultimamente rispetto ad altri Paesi come il Regno Unito. La sorprende?

No, non mi sorprende perché c'è una sottovalutazione diffusa legata anche all'assenza di attentati e in assenza di emergenze questo tema non sembra essere prioritario. Anche a livello legislativo c'è stata un'occasione persa nell'ultima legislatura: una proposta di legge, che ho firmato anche io, sul contrasto alla radicalizzazione. Il disegno stava per compiere il suo iter: sarebbe bastato avere una settimana in più di legislatura per poterla approvare. Così oggi non abbiamo progetti da sviluppare né nelle scuole, né nelle carceri, né sul web.

E in Europa?

In Europa invece esistono gruppi di lavoro, come ad esempio quello chiamato Radicalisation Awareness Network (RAN), finanziati con le tasse di tutti i cittadini e quindi anche con le nostre, che stanno cercando di progettare dei format sia per la de-radicalizzazione, sia di supporto in un secondo momento, prospettando anche la difficile soluzione di garantire un lavoro a queste persone. In tutti i 27 Paesi membri.

Che differenze ci sono tra l'Italia e gli altri Paesi membri? Per esempio, in Gran Bretagna è possibile revocare la cittadinanza di una persona se è dotata di doppio passaporto, come nel caso recente di Shahima Begum.

La nostra costituzione non prevede la revoca della cittadinanza in questi casi, ma tutto è disciplinabile, nel senso che anche tecnicamente oggi è possibile: con il Decreto Sicurezza recentemente approvato si prevede la perdita di cittadinanza per chi viene condannato per fatti di terrorismo internazionale. La Francia ha già vissuto questo tipo di problema, perché molti foreign fighters francesi hanno la doppia cittadinanza. In Francia è possibile la revoca di una sola delle due cittadinanze. In Italia non si è mai verificato.

E per quanto riguarda eventuali figli dei foreign fighters italiani concepiti in territorio Isis?

Se sono minorenni non possono essere perseguiti penalmente, Il punto è che mancano leggi che consentono l'utilizzo di soldi pubblici per i progetti di recupero. Però ci sono norme soprattutto in materia di contrasto alle mafie che potrebbero essere interpretate in modo analogo, considerando un intervento pubblico un piano di de-radicalizzazione. È già avvenuto a Bari nei confronti di un soggetto italiano, il caso di Alfredo Santamato (42enne barese convertito all'Islam e sospettato dalla Dda di Bari di terrorismo internazionale, in seguito costretto a completare un corso di de-radicalizzazione ndr).