Brenton Tarrant e il marketing (virale) del terrore

L’autore dell’attentato terroristico a Christchurch in Nuova Zelanda sembra aver appreso molto dall’Isis nella cura mediatica avuta durante la strage, rivelando come al solito gli enormi limiti dei social

Meticolosità ed egocentrismo portati fino alle estreme conseguenze uniscono due criminali a Brenton Tarrant. Il terrorista primatista bianco autore della strage avvenuta il 15 marzo in due moschee di Christchurch in Nuova Zelanda ci ricorda per l’attenzione ai media, tanto la YouTuber Nasim Najafi Aghdam, che dopo aver fallito un attentato nella sede di YouTube si tolse la vita, quanto Anders Breivik autore della strage di Utoya in Norvegia.


La prima era particolarmente ossessionata dal bisogno di essere notata nel web, il secondo produsse un documento di oltre mille pagine presentato come manifesto della sua «causa», esattamente come Tarrant con le sue più risicate 79 pagine.


Ma Tarrant va mediaticamente oltre, documentando direttamente nei social l’attentato in cui ha ucciso 49 persone, assieme ad altri complici. Mostra i caricatori delle armi con cui compirà la strage, coi nomi di personaggi che evidentemente lo hanno ispirato, tra questi Luca Traini, autore dell’attentato di Macerata del 3 febbraio 2017, dove sparò mentre era in auto a sei immigrati africani.

Intanto cominciano a circolare le prime immagini del terrorista in manette con l’abito bianco dei carcerati. La breve udienza si è tenuta nel tribunale distrettuale di Christchurch, dove è stato rinviato a giudizio e resterà in custodia cautelare. Comparirà di nuovo in aula il 5 aprile.

Non parla ma appare piuttosto sprezzante, esibendo quello che il Guardian presume essere il gesto dei primatisti bianchi, prodotto toccando il pollice con l’indice: una sorta di Ok alla rovescia che sta a indicare la sigla Wp (white power/pride). Quel gesto dice tutto di una persona che vuole giocare coi meccanismi che rendono virali informazioni e simboli in rete, facendo una sorda di «marketing del terrore».

Nulla di nuovo da questo punto di vista, basti pensare alla cura con cui i terroristi dell’Isis realizzavano i loro filmati, per pubblicizzare esecuzioni e reclutamento. Così cominciamo tutti a chiederci se quel gesto di Tarrant voglia significare qualcosa in particolare: solo spavalderia di fronte al giudice, oppure voleva comunicare qualcosa ai suoi complici? E via così a rilanciare e postare nei principali social network, che si rivelano luoghi ideali per lanciare campagne virali d’ogni tipo, specialmente se consistono nel radicalizzare l’odio.

Il modo di agire del terrorista segue i meccanismi che utilizzeremmo per raccogliere quante più visualizzazioni: Tarrant ha filmato la strage con una GoPro fissata su un elmetto. Prima però si era assicurato che il macabro spettacolo potesse avere visibilità, facendo «hype» (creando l’attesa), preannunciando su 8chan che stava per andare in diretta Facebook un importante evento.

Il link di Facebook è sotto, quando leggerete questo dovrei andare in diretta.

Per quanto Facebook sia intervenuta poco dopo rimuovendo il filmato, nulla ha impedito che intanto venisse condiviso su altri social, come Twitter, WhatsApp e Instagram. Si tratta dell’esempio più estremo di quanto la lotta alla disinformazione e l’odio sia difficile da portare avanti, se non al prezzo di limitare drasticamente la libertà di espressione: a oggi infatti non c’è ancora la possibilità tecnica di riconoscere tempestivamente contenuti multimediali che violano le norme.