Ponte Morandi, lo psichiatra dei sopravvissuti: «È come se fossero scampati all’11 settembre»

Il tribunale di Genova ha inserito nell’elenco delle persone offese per il crollo del ponte anche chi non ha subìto danni fisici, ma è rimasto coinvolto nella tragedia. Lo psichiatra forense Marco Lagazzi racconta a Open la natura dei traumi psicologici di queste persone: «Non è come per un terremoto o per uno tsunami. Chi ha vissuto questo evento lo sente come causato da un comportamento umano»

Il tribunale di Genova ha inserito nell’elenco delle persone offese per il crollo del ponte Morandi anche chi non ha subìto danni fisici. Queste persone, al termine delle indagini preliminari,quando (e se) si costituiranno davanti al giudice come parte civile avranno già il disco verde della procura. Abbiamo chiesto a Marco Lagazzi, psichiatra forense che ha studiato gli effetti del crollo su chi è sopravvissuto, di raccontarci che generi di traumi hanno subito queste persone e come possono superarli. E come hanno vissuto la tragedia la città di Genova e i genovesi.


Ci può dire chi sono questepersone?
«Non posso dare nessun elemento specifico perché c’è il segreto professionale. In generale però si tratta di parenti di persone decedute oppure di persone che si sono trovate coinvolte nell’evento e sono sopravvissute».


Di quante persone stiamo parlando?
«Io, insieme alla collega psicodiagnosta,ne ho analizzateuna quindicina».

Che tipo di disturbihanno riportato?
«Il quadro clinico in tutti i casi è di disturbo post traumatico e depressivo».

Come si può superare un quadro clinico del genere?
«Dipende dalle caratteristiche delle persone, ma ci sono delle metodiche terapeutiche che devono essere attivate. L’esito dipende dall’intensità del disturbo post traumatico, dalla durata del trattamento e dalla risposta della persona al trattamento».

Il danno subìto dalla persona è quantificabile?Anche dal punto di vista economico?
«Sicuramente il danno biologico-psicologico, senza entrare nei casi concreti, è riconosciuto come un danno alla stregua di unofisico, come se una persona perdesse una gamba. Ci sono delle tabelle di riferimento sancite dalla giurisprudenza e dalla letteratura medico legale e quindi si viene risarciti».

Quali sono iprecedenti di un riconoscimentodi danni di questo tipo?È lo stesso disturbo riconosciuto ai reduci di guerra?
«Il cosiddetto disturbo post traumatico è quello, che sia nel caso di una persona che si trovi davanti a una mina in guerra o abbia un incidente stradale in cui rischia di perdere la vita o la perda qualche suo parente, o rischi di perderla, o si trovi coinvolto in un conflitto a fuoco per strada:la sintomatologia è la stessa. Un vero e proprio disturbo psicopatologico riconosciuto. Non c’è molta differenza tra il trovarsi in un episodio di guerra in cui salta tutto, in un terremoto, in uno tsunami o trovarsi sotto un ponte che ti cade addosso. Lo stesso vale poi per chi ha salutato al mattino il marito o il figlio e poi viene a sapere che è successo un episodio del genere».

Nel caso specifico del crollo del ponte Morandi che tipo di trauma è?
«Quello che tutte queste persone sentono è che non stato è un evento naturale. Nel senso che uno tsunami o un terremoto sono eventi che istintivamente si inseriscono come, per quanto traumatici, nell’ordine delle cose. In questo caso invece stiamo parlando di qualcosa di paragonabile all’11 settembre. Chi ha vissuto questo evento lo sente come correlato a un comportamento umano. Questo è un elemento molto più lacerante. Come esseri che vivono sulla Terra siamo tutti consapevoli del fatto di essere in qualche modo sottoposti agli effetti della natura, ma se ci sono degli eventi che invece le persone recepiscono come non naturali e dovuti, quantomeno secondo il loro punto di vista, a comportamenti di altri è ovvio che molto più difficile, anche dal punto di vista clinico, intervenire: perché entra il gioco il bisogno di giustizia delle persone. Anche terapeuticamente è molto diverso per una persona se poi si deve trovare coinvolta in anni di processo rispetto, a una persona che con una transazione chiude immediatamente. Tutti fattori processuali che poi influiscono sulla possibilità di terapia».

Al di là delle vicende dei singoli, per Genova e i genovesi si può parlare di trauma collettivo?
«Assolutamente sì, sicuramente. Non si può parlare di trauma post traumatico, ma di un disagio che c’è per tutti:è la perdita di qualcosa. Da un punto di vista più psicosociale è la perdita di un pezzo di tessuto collettivo, di un’immagine collettiva. In qualche modo depaupera tutti quanti e ingenera un po’ di angoscia in tutti quanti. Tanti anni fa c’era stato a Genova un evento altrettanto tragico, quello del naufragio della nave London Valour. Un evento che ha polarizzato ed è stato vissuto con grandissima partecipazione, ma come un evento che rientrava nella “storia dell’uomo”, cioè il mare, il naufragio, chi interviene a salvare».

E anche nella storia della città…
«Esattamente. Sono eventi che sono presenti anche nel tessuto della città. Questa tragedia (quella del crollo del ponte Morandi, ndr) è stata vissuta come aliena. Ripeto: un 11 settembre. Dal punto di vista psicologico, rispetto a Genova, è l’unico paragone che mi viene da fare. Il trattamento a cui vengono sottoposte le persone che hanno affrontato casi come questo, è lo stesso, come dicevo, a cui sono sottoposti i reduci di guerra. Infatti anche la terapia Emdr (Eye Movement desensitization and processing) che viene messa in atto è la stessa utilizzata per i reduci di guerra sui quali per primi è stato studiato il disturbo post traumatico».

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