La fine del Ramadan dedicata al Papa (vista dalla moschea che ospita altre fedi) – Il reportage

«La dedica a Papa Francesco è stata ben accettata. Ma qualche dissenso c’è stato. I dissensi ci sono sempre, il dialogo non è facile. Ci vuole la capacità di andare oltre quelle che sono le differenze confessionali»

Finito il mese del Ramadan, è in corso l’Eid al fitr, la festa che segna la fine del mese sacro di astensione. Astensione che, secondo il direttore della comunità religiosa islamica italiana, Abd al-Sabur Turrini, «non è un atto masochistico in cui ci si prepara solo ad avere fame e sete».


Il significato del Ramadan è invece quello di «astenersi dalla propria egocentricità, dalla propria dimensione individuale e personale, per lasciare spazio a una prospettiva più universale, dal momento che l’uomo e la donna sono stati creati a immagine e somiglianza di Dio», spiega il direttore del Coreis che Open ha incontrato nella sede nazionale a Milano.


E questo – secondo Turrini – viene «prima di qualsiasi identificazione religiosa e confessionale. Lo sforzo dei credenti, come dice un versetto del Corano, è quello di gareggiare nelle buone opere, non di contrastare quella stessa natura che è uguale in ogni donna e in ogni uomo».

La dedica a Papa Francesco

Quest’anno, per la prima volta, la festa di fine ramadan è stata dedicata a Papa Francesco. «Nella mia comunità – racconta Turrini – questa dedica al pontefice è stata in linea di massima ben accettata. Ma qualche dissenso c’è stato. I dissensi ci sono sempre, il dialogo non è facile, ci vuole sempre una grande buona volontà».

«Ci vuole la capacità di andare oltre quelle che sono le differenze confessionali. Il dialogo religioso è sempre uno sforzo che bisogna riuscire a fare nel riconoscimento della religiosità autentica – spiega il direttore del Coreis – al di là di derive ideologiche, di affermazioni proselite o egocentriche».

Il dialogo interreligioso con le altre confessioni

«Noi abbiamo un ottimo rapporto sia con la comunità ebraica che con il Vaticano. Ma anche con le tradizioni estremo orientali, con induisti e buddisti», spiega Turrini.

«Inoltre, questa nostra moschea – continua – è frequentata dalle altre comunità religiose e con il Comune di Milano seguiamo un programma che si chiama “Conoscere le religioni del mondo“».

«Per cui spesso al mattino vengono bambini delle scuole elementari o medie con i loro insegnanti e genitori. Vengono a rendersi conto di cosa sia una moschea. Queste porte si aprono proprio per mostrare che in realtà siamo molto più vicini di quanto non si vorrebbe a volte pensare».

L’intolleranza religiosa

«Nella mia comunità non ho registrato casi di discriminazione o episodi di intolleranza. Però ci rendiamo conto che – spiega Turrini – purtroppo a volte ci sono delle estremizzazioni legate al problema dei migranti o della diversità».

«Sono tutti spauracchi che si basano sull’ignoranza, sulla mancanza di senso della realtà – continua -. Non si tratta solo di non conoscere la religione, la cultura, o la confessione degli altri, ma di essere ignoranti anche sulla propria. Perché se si conoscesse la propria forse non si avrebbe la paura di essere invasi o cooptati da un’altra cultura.

La moschea al-Wahid

«La conoscenza – conclude Turrini – è l’unico vero antidoto per andare oltre le barriere, le categorie, le ghettizzazioni che derivano dall’ignoranza. C’è una specie di allarmismo psicologico a priori per cui si vede come nemico semplicemente ciò che non si conosce».

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