Taglio dei parlamentari e poi al voto, il costituzionalista: «Si può fare, ma con effetti perversi» – L’intervista

Secondo Cesare Mirabelli, ex presidente della Corte costituzionale, spetterebbe a Mattarella rifiutarsi di sciogliere le camere se la taglia-poltrone venisse approvata

Da quando è scoppiata la crisi di governo, il vicepremier Luigi Di Maio non ha fatto altro che ribadire: «Voto sì, ma tagliamo i parlamentari come abbiamo promesso». A lui, il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha risposto ieri, 13 luglio dal Senato: «Anticipare il taglio dei Parlamentari e poi per dignità, onestà e coerenza, si va subito al voto, affare fatto»


Alla legge, promossa da M5S e Lega, votata al Senato per la prima volta il 10 ottobre 2018, era necessario solo il quarto e ultimo voto per essere approvata. Inizialmente previsto per il 9 settembre alla Camera, il voto è stato anticipato ieri al 22 agosto. Nella sua proposta, però, Salvini ha specificato: «subito». Cosa significa andare «subito» al voto dopo l’eventuale approvazione della riforma costituzionale? E soprattutto, è possibile farlo?


Il disegno di legge

Secondo il disegno di legge costituzionale nato dalle proposte della maggioranza M5s-Lega, il numero dei parlamentari verrebbe ridotto di 345 unità. I senatori passerebbero da 315 a 200 e i deputati da 630 a 400. Questo porterebbe a un risparmio per lo Stato stimato a 50 milioni di euro l’anno.

Tale riforma avrebbe subito un primo impatto anche con la riduzione del peso delle minoranze, spiega a Open Cesare Mirabelli, giurista ed ex presidente della Corte costituzionale, perché un numero inferiore di rappresentanti significa aumentare il numero di voti necessari a un parlamentare per essere eletto.

L’impasse

Il primo paradosso nella procedura è dato dal calendario stabilito dalle Camere: la votazione della sfiducia per il governo Conte è prevista per il 20 agosto, e quella per il taglio del Parlamentari per il 22. Tuttavia questa riforma, avverte Mirabelli, non potrebbe essere approvata se il governo Conte non dovesse essere più in carica, perché è necessario che esista un rapporto fiduciario tra governo e Parlamento perché una legge venga votata.

«Se si dimettesse il governo, in Parlamento non si potrebbe deliberare, perché mancherebbe un interlocutore. Se il governo si dimette questo tema si differisce al nuovo governo o al dopo elezioni, secondo gli sviluppi», spiega Mirabelli.

Nel caso invece in cui il governo non fosse demissionario e si procedesse con l’approvazione della riforma costituzionale, ci si ritroverebbe comunque in una situazione paradossale.

All’articolo 4, il disegno di legge stabilisce che le nuove regole si applicano «a decorrere dalla data del primo scioglimento o della prima cessazione delle Camere successiva alla data di entrata in vigore della legge» e comunque «non prima che siano decorsi 60 giorni dalla predetta data di entrata in vigore».

La Costituzione, inoltre, prevede che, una volta pubblicata la legge sulla Gazzetta Ufficiale, 500mila cittadini, cinque consigli regionali o un quinto di deputati o senatori abbiano la facoltà di chiedere, entro tre mesi, un referendum per confermare o meno la riforma, dato che già in terza lettura al Senato la riforma è stata approvata con una maggiornaza inferiore ai 2/3 che avrebbe consentito di evitare la consultazione popolare.

Ma anche se nei tre mesi dall’approvazione non venisse indetto un referendum, sarebbe comunque necessario attendere almeno fino alla primavera prossima per ridisegnare i collegi.

O «subito al voto» o la riforma

Dunque, se venisse approvato il taglio dei parlamentari e se si andasse subito al voto secondo la volontà della Lega, senza aspettare né i 60 giorni né tantomeno i tre mesi previsti dalla Costituzione per un possibile referendum, il «taglio delle poltrone» non verrebbe applicato al nuovo Parlamento.

Tutto rimarrebbe invariato per la prossima legislatura, un elemento che renderebbe la presa di posizione dei 5 stelle di fatto inutile, se non per temporeggiare, e la riforma inefficace anche per la campagna elettorale.

Al volto dopo la riforma?

«Dal punto di vista formale non è impossibile», spiega Mirabelli, se il Parlamento approvasse la riforma costituzionale «si potrebbe andare subito alle urne».

Nel 2005 infatti, il referendum confermativo sulla riforma Costituzionale soprannominata «Devolution» approvata a novembre si tenne nel giugno successivo, dopo le politiche di aprile.

Ora invece, votare dopo l’approvazione della riforma costituzionale che modifica la composizione delle camere avrebbe, secondo il giurista, «quegli effetti perversi che implicano non un divieto formale ma una sostanziale inibizione». Infatti, dopo un’eventuale approvazione da parte del Parlamento, se non avvenisse un referendum confermativo o se il referendum avesse un esito positivo, ci si troverebbe infatti con un Parlamento composto da 945 unità mentre la Costituzione riformata ne prevede 600.

«Ma siccome lo scioglimento è un apprezzamento del Presidente della Repubblica, che tiene conto della situazione esistente, il Capo di Stato dovrebbe attendere il completamento di questa procedura prima di sciogliere il Parlamento, perché sia eletto con le nuove dimensioni», afferma Mirabelli.

Ed è effettivamente quello che Sergio Mattarella ha fatto capire di aver intenzione di fare, secondo fonti vicine al Presidente interpellate dal Corriere della Sera. «In ogni caso, quando si parla di riformare la Costituzione credo che occerrerebbe una grande attenzione e che sarebbe necessario farlo con tranquillità, non nei momenti nei quali appare esserci una convenienza politica», è l’aspro commento di Mirabelli, «Mi sembra che tutto questo sia un gioco politico piuttosto che un interesse istitutizonale e costituzionale».

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