La società di Zuckerberg vuole ricordare a tutti che possiede Instagram e non solo il social bianco e blu, fonte di svariati problemi
Un passo più lontano da Facebook e più vicino a Instagram. La società di Mark Zuckerberg ha cambiato il proprio marchio aziendale, passando da Facebook a «FACEBOOK». Il carattere è diverso, così come il colore, che assomiglia alla palette di colori caldi di Instagram. L’annuncio è comparso su un blog della società, in un articolo dove appaiono anche alcune immagini del nuovo marchio.
Si sa che dietro a ogni rebranding c’è una scelta strategica. Dietro questo si intravede la decisione di differenziare la casa madre dal social network e di far sapere a tutti che Facebook possiede Instagram e Whatsapp. «Abbiamo introdotto un nuovo logo aziendale e stiamo ulteriormente distinguendo la società Facebook dall’app Facebook, che manterrà invece il proprio simbolo», ha scritto Antonio Lucio, direttore marketing dell’azienda, in un post.
Dopo le continue accuse rivolte al social network bianco e blu di essere veicolo di disinformazione e di uso improprio di dati personali, non stupisce che Facebook (la società) voglia smarcarsi da Facebook (il social network). In un’intervista a Bloomberg, Lucio ha anche affermato che era stato considerato un cambiamento del nome stesso della società madre, ma poi si era esclusa questa opzione per non dare l’idea che Facebook volesse nascondersi dai suoi problemi.
Il rebranding, che utilizza i colori di Instagram, punta invece a rendere più immediata l’associazione tra la società Facebook e applicazioni che possiede, come Instagram e Whatsapp, che in genere gli utenti vedono maggiormente di buon occhio. Lucio ha affermato che quando gli utilizzatori scoprono che è Facebook la casa madre di Instagram o Whatsapp, iniziano ad apprezzare di più la società.
I grandi partiti che non riescono più a comandare una maggioranza in parlamento, un elettorato alla ricerca di nuove soluzioni (spesso radicali) sia a sinistra sia a destra e un succedersi di governi a durata limitata “vittime” di un sistema elettorale proporzionale che non sembra capace di garantire la governabilità del paese: non si parla dell’Italia ma della Spagna dove domenica 10 novembre si terranno nuove elezioni, le quarte in quattro anni.
Se l’Italia è stata in grado di esprimere quattro premier e cinque governi dal 2013, la Spagna “ingorda” di elezioni si è fermata a due premier (e tre governi) anche se i tentativi di formare un governo sono stati diversi. L’ultimo – quello del socialista Pedro Sanchez – è nato dalle elezioni di aprile 2019, vinte dal partito socialista Psoe con il 29% delle preferenze che però non è stato in grado di formare una maggioranza in parlamento.
Per qualche giorno durante l’estate – poco prima che il Governo Conte si addormentasse gialloverde per poi risvegliarsi giallorosso – sembrava che sarebbe potuta nascere un’alleanza tra i socialisti di Sanchez e il partito radicale di sinistra Podemos di Pablo Iglesias. Ma una diverbio sulla spartizione dei ministeri e delle competenze – Iglesias, che aveva rinunciato a essere ministro, esigeva il controllo dell’80% della spesa sociale – ha fatto sì che si spegnesse in un nulla di fatto.
I mesi successivi (c’era tempo fino al 23 settembre per formare un nuovo governo) non sono serviti a granché se non a posticipare l’inevitabile. Sanchez, che si era già speso in un tentativo di trovare un’intesa con il movimento di centro-destra Ciudadanos, è rimasto isolato.
Quando a luglio si è votato per la fiducia, l’appello del premier ai partiti di destra di astenersi è stato “accolto” prima con un voto contro, poi con una serie di condanne verbali (Pablo Casado del Partito popolare ha definito il voto uno «spettacolo indecoroso»). Alla vigilia di nuove elezioni, non molto sembra essere cambiato.
La maggioranza che non c’è: i sondaggi
Il partito socialista, secondo più sondaggi, rimane in testa con percentuali di voto simili a quelle di aprile, come mostra l’ultimo sondaggio Europe Elects: 29% contro il 20% del partito popolare. Dati pressoché confermati da un sondaggio realizzato per conto del quotidiano El Paìs che dà il partito socialista primo con il 27,3% e due seggi in meno rispetto ad aprile e il Partito popolare secondo, con il 21% del voto.
Ma il dato più significativo sta in mezzo: si tratta del margine di voti che mancano per ottenere una maggioranza assoluta di 176 (su 350 nella camera bassa), un buco che sembra destinato a rimanere uguale o addirittura ad allargarsi visto il rallentamento a sinistra, sia del partito socialista, sia di Podemos, frenato anche dalla creazione di un nuovo partito di Inigo Errejon – Más País [Più Paese ndr] – l’ex numero due di Pablo Iglesias.
Si prospetta uno scenario in cui Sanchez sarebbe costretto a tentare nuovamente di formare un’alleanza, cercando il sostengo della sinistra radicale e di qualche partito regionalista – visto che la destra ha già dichiarato di non essere disposta a cercare un accordo di compromesso (o di unità nazionale) con il Psoe – per evitare un nuovo ritorno alle urne.
Il fattore Catalogna
La sinistra frena, dunque, e la destra cresce, soprattutto la destra tradizionale del Partito popolare – il cui tasso di gradimento sembra essere aumentato di circa 4-5 punti percentuali – e l’estrema destra di Vox, con buona pace al movimento di centro-destra Ciudadanos, che potrebbe vedere dimezzato il suo consenso.
Se il sostegno per il Partito popolare potrebbe essere dovuto a un cambio di strategia tra gli elettori di centrodestra, intenti a dare il loro voto a un partito di governo anziché a Ciudadanos, per spiegare l’ascesa dei partiti di destra in generale e in particolare del movimento Vox, bisogna fare i conti, oltre alla preoccupazione legata a fattori economici, come la disoccupazione (14,2% a settembre secondo i dati Eurostat), anche con la crisi in Catalogna che è tornata ad acuirsi a metà ottobre dopo l’incarcerazione dei leader indipendentisti.
Non è un caso infatti che per la prima volta il 10 novembre alle elezioni parteciperà anche il movimento indipendentista di estrema sinistra CUP (Candidatura di Unità Popolare) che potrebbe entrare in parlamento con due seggi. Lo stesso Vox – che sempre secondo i sondaggi potrebbe raddoppiare il numero di deputati in parlamento – dalle sue origini nel 2013 deve il suo successo alla reazione ultra-nazionalista che ha accompagnato le crisi secessioniste.
La Catalogna è così diventata il bastone con cui tutti i partiti, a turno, bastonano il Psoe: se Sanchez viene accusato, sia a destra che a sinistra, di non aver saputo gestire la crisi, ma anzi, di volerla usare per cercare un’intesa con il Partito Popolare, lo stesso Pablo Casado del Partito popolare è il primo ad accusare Sanchez di aver approfittato dalla crisi per far crescere i propri consensi. Ma i sondaggi raccontano un’altra storia.