«Letti di ferro, torture e condizioni igieniche disumane»: parlano i prigionieri delle carceri di Lukashenko in Bielorussia

Tre manifestanti hanno raccontato a Open il periodo di detenzione: «L’obiettivo del regime? Farci crollare». Le loro storie

Sei mesi di proteste, migliaia di arresti, e le accuse di torture contro i manifestanti. Dopo le elezioni dello scorso 9 agosto, la Bielorussia di Aleksandr Lukashenko si è trasformata in un quotidiano campo di battaglia. Ma per il presidente, rieletto in agosto, con un risultato dietro cui per molti osservatori si nascondono brogli elettorali, le proteste degli ultimi mesi sono state «una guerra lampo». Le rivendicazioni democratiche sono state frutto di tensioni «create artificialmente da forze esterne», ha detto Lukashenko intervenendo l’11 febbraio a un’assemblea davanti a funzionari civili e militari.


A parlare di resistenza, in un’interpretazione ribaltata della realtà, è proprio il presidente bielorusso in carica dal 1994: «Dobbiamo resistere a tutti i costi e il 2021, quest’anno, sarà decisivo». Nel tentativo di rimanere in carica, il presidente ha cosi annunciato che una bozza di riforma costituzionale sarà presentata entro la fine di quest’anno e «sottoposta a referendum» all’inizio del 2022.


«Dalle 6 alle 22 ci era proibito toccare letti»

Ma mentre Lukashenko cerca di consolidare il suo potere, nelle strade del Paese protestare continua a essere illegale. «Sono stato arrestato per la prima volta il 10 ottobre», racconta a Open Tim Suladze, 41 anni, detenuto per un totale di 28 giorni nelle carceri bielorusse. Artista di strada, Saladze si mantiene con la sua musica. «Quel giorno stavo suonando la tromba quando la polizia mi ha presto, caricato su un blindato, e portato in questura». Un processo di cinque minuti via Skype e poi la condanna a 15 giorni di reclusione per aver partecipato alle proteste contro Lukashenko.

Uscito di prigione 23 ottobre, Suladze, cittadino bielorusso, con un passaporto georgiano e russo, è stato arrestato nuovamente il 4 novembre. «Per otto giorni non è stato possibile fare una doccia. Dalle 6 del mattino alle dieci sera ci era proibito toccare letti, potevamo solo sederci per terra, o su panchine di 60 cm». Un divieto che è continuato anche quando Suladze si è ammalato: «Dormivo per terra e usavo la mia giacca come cuscino».

Una volta uscito il 41enne ha scoperto che la famiglia gli aveva inviato dei medicinali in carcere ma «le autorità li avevano requisiti». Durante il periodo in carcere i detenuti sono inoltre obbligati ad ascoltare musica di propaganda: «Ci facevano calpestare la bandiera bianco rossa», simbolo delle proteste pro-democrazia. Una volta uscito, Suladze è riuscito a rifugiarsi in Lituania: «Ho ottenuto asilo politico, ma sono riuscito ad attraversare il confine solo grazie al mio passaporto russo». Il confine tra Mosca e Minsk è infatti chiuso, e per i bielorussi non è possibile lasciare il Paese, a meno che non dimostrino di doversi spostare per motivi di studio o lavoro.

Calci e spray urticante

Aleksander è invece stato arrestato lo scorso 20 novembre da un gruppo di uomini in borghese: «Si erano mescolati tra la folla. Ma addosso avevano manganelli e coltelli». Dopo essere stato perso a calci, «mi è stato anche spruzzato dello spray urticante negli occhi», racconta Aleksandr. «Mi hanno fatto spogliare in mutande per perquisirmi, cercavano simboli del movimento di protesta». Una volta arrivato nel carcere di Baranovichi, a circa 160 chilometri dalla capitale Minks, anche uno spazzolino diventa prezioso. La carta igienica è rara e le celle sono sovraffollate. «Ci facevano correre per il cortile senza lacci alle scarpe, volevano vederci disperati e afflitti. Ci chiedevano “perché continuate a manifestare?”».

Secondo il centro sui diritti umani Viasna, sono almeno 873 le persone che nel mese di gennaio sono state detenute per aver partecipato alle proteste. E ogni gesto di resistenza è diventato motivo di arresto. È successo ad Arianna (nome di fantasia per proteggere la sua identità, ndr), 31 anni, arrestata per aver confezionato e venduto braccialetti bianchi, indossati come segno di riconoscimento da chi, lo scorso agosto, non ha votato per Lukashenko. «Sapevo mi avrebbero fermata», dice Arianna a Open che rileva di essere stata avvicinata anche dal Kgb: «Mi hanno chiesto di fare la spia, ma quando ho rifiutato mi hanno mandato una settimana in cella cosi che “potessi avere tempo per pensarci”».

«Candeggina nelle celle per non farci respirare»

La destinazione per Arianna è stata quella della prigione di Okrestina. «Vivevamo in condizioni disumane, i letti erano fatti di ferro e non avevamo materassi, né lenzuola o coperte», racconta Arianna. «Era una tortura. Ho cercato di dormire sul tavolo, o per terra. Ma faceva molto freddo». Dopo la notizia degli arresti, i familiari provano di solito a inviare dei pacchi ai detenuti. «Ma vengono puntualmente requisiti. Se riesci ad avere un cambio di biancheria allora sei fortunata, altrimenti devi rimanere per tutta la durata della detenzione con gli stessi indumenti e le stesse mutande, era terribile». Gli unici prodotti di igiene che si riescono a trovare nel carcere di Okrestina sono la carta igienica e il sapone.

«Nelle celle progettate per cinque persone eravamo in realtà in dodici. Era impossibile respirare perché non si poteva aprire la finestra», dice Arianna che racconta anche dell’atteggiamento delle autorità. «Dopo aver protestato per diversi giorni ci hanno finalmente portato fuori. Ma visto che c’erano -20 gradi, ci hanno tenuto all’aperto per ripicca per due ore. Una volta rientrate – aggiunge – abbiamo trovato la candeggina su tutto il pavimento della cella, cosi era impossibile respirare». L’obiettivo del regime di Lukashenko è solo uno: «Vogliono spezzare il nostro spirito, farci crollare psicologicamente. Ma continueremo la nostra resistenza, in carcere ho trovato molta solidarietà. Molti mi consigliano di lasciare il Paese – conclude Arianna – ma non lo farò, questo non è il momento».

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