La svolta di Goldman Sachs: nessun investimento in aziende senza dirigenti donne. A che punto siamo in Italia?

Le quote di genere previste o obbligatorie nelle società in borsa sono sempre più alte. In alcune aree del mondo il passaggio culturale è più lento; l’Italia, invece, per una volta può essere considerata tra i Paesi più virtuosi al mondo

La banca d’affari americana ha preso una decisione epocale: nessun collocamento, nessuna partecipazione in tutte le società i cui consigli d’amministrazione sono composti solo da maschi bianchi, ignorando la presenza di donne o di altre minoranze. Una decisione che diventerà effettiva a partire dal prossimo luglio e varrà soltanto per l’Europa e gli Stati Uniti.


La dichiarazione del ceo di Goldman Sachs, David Solomon, avrà le sue conseguenze nel mercato azionario americano: la banca d’affari è l’istituto che sottoscrive la maggior parte delle offerte pubbliche iniziali a Wall Street e tutte le società che contano di sbarcare in borsa cercano un appoggio della banca. È probabile che molte aziende si adegueranno alle nuove disposizioni di Goldman Sachs, ovvero avere nel cda almeno due membri rappresentativi di minoranze.


Il requisito non riguarda solo le donne, ma vale anche per l’etnia, la religione, l’orientamento sessuale e l’identità di genere. Goldman Sachs ha ricevuto non poche critiche perché la direttiva non varrà per Asia e Africa. Un portavoce della banca ha spiegato a Bloomberg che rientra nei piani futuri l’estensione dell’obbligo a questi due continenti, ma che per il momento è giusto aspettare che in quelle aree si sviluppi maggiore sensibilità sul tema delle disuguaglianze.

La situazione negli Stati Uniti

Stando alle cifre del Msci, fornitore di servizi finanziari statunitensi, il problema della parità di genere nelle società americane è ampiamente in via di risoluzione: delle aziende incluse negli indicatori globali del gruppo, solo l’1% delle imprese quotate ha un cda composto da soli uomini. Percentuale che schizza al 33% analizzando, per esempio le società del Giappone e arriva alla cifra folle del 94% in Arabia Saudita.

Un rapporto che fa il paio con i calcoli di Bloomberg, secondo cui nel 2019 circa la metà delle posizioni aperte all’interno delle società quotate sull’indice S&P 500 sono state occupate da donne e, per la prima volta, è stata raggiunta la quota del 25% di presenze femminili nei cda di tali gruppi.

Le aree geografiche meno virtuose

Appare poco coraggiosa, tuttavia, la scelta di escludere l’Africa dalla nuova politica aziendale di Goldman Sachs. L’ultimo rapporto sul tema è della multinazionale di consulenza strategica McKinsey: la società ha rilevato che nel continente africano, in media, i cda sono composti per il 25% da donne. Un dato più alto di quello riscontrato in Europa, dove la media è del 23%, e degli Stati Uniti, 22%.

Stando al report di McKinsey, le aree dove il maschilismo aziendale è più forte sono l’Asia, con una percentuale media di donne nei cda pari al 13%, il Medio Oriente, con l’11%, e l’America Latina, con il 7%. Ma quale posizione occupa il nostro Paese sul tema della parità di genere negli organi direttivi delle aziende?

Il caso italiano

In Italia, dal 2011, è in vigore la legge Golfo-Mosca che ha introdotto l’obbligo di riservare alle donne almeno il 33% del numero di membri degli organi di controllo e amministrazione delle società quotate. Gli effetti di questa misura sono stati monitorati da Cerved, società italiana che elabora report e studi di settore a aziende e istituti finanziari. Secondo una loro rilevazione, la legge Golfo-Mosca ha aiutato a incrementare la presenza femminile nei cda e, nel 2017, il numero di donne nei board delle aziende di Piazza Affari è aumentato di un terzo, in media, in ciascun cda. Purtroppo solo in 26 casi (l’11%) in quell’anno, è stato superato il numero minimo previsto dalla legge.

Un’analisi degli anni 2010-2018 dalla Consob ha sottolineato l’andamento sul lungo periodo. Il timore delle sanzioni previste dalla legge Golfo-Mosca ha portato la presenza di donne nei cda dal 7% del 2010 a una media del 36% nel 2018. È importante anche evidenziare gli effetti di questo aumento: la Commissione nazionale per le società e la Borsa ha rilevato che la presenza delle donne incide positivamente sui profitti delle aziende, ma solo nei casi in cui la loro presenza nei ruoli amministrativi e dirigenziali sia superiore al 17-20%.

Dal primo gennaio 2019, per un periodo di 5 anni, è attivo l’Osservatorio interistituzionale sulla partecipazione femminile negli organi di amministrazione e controllo delle società italiane. Sotto il monitoraggio di quest’organo, a cui partecipano Consob, Banca d’Italia e dipartimento per le Pari opportunità, si assisterà agli effetti dell’obbligo imposto dalla Legge di bilancio 2020: le quote di genere saranno imprescindibili per tutte le società quotate per altri 3 mandati dei cda. La manovra prevede anche l’elevazione della quota da un terzo, previsto dalla legge Golfo-Mosca, a due quinti, vale a dire il 40% del cda.

L’Italia, per una volta, proprio per l’entrata in vigore della legge 120 del 2011, è riuscita ad adeguarsi velocemente alla normativa ed è tra i Paesi più avanzati al mondo per le quote di genere nelle società quotate. A Piazza Affari, una società su cinque ha già all’interno del suo cda una presenza femminile uguale o superiore al 40%. Oggi, circa 600 tra manager, commercialiste, avvocate e professioniste in genere occupano ruoli di dirigenza e amministrazione nelle aziende quotate a Milano.

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