La politica e gli esperti discutono da anni circa la necessità di introdurre una legge sul “salario minimo”, anche alla luce delle indicazioni provenienti dall’Unione Europea. Mentre questo dibattito sembra impantanato – difficilmente le proposte di legge presentate in questa e nella scorsa legislatura acquisteranno concretezze, come dimostra anche il rinvio odierno della discussione sulla proposta delle opposizioni – nella magistratura stanno emergendo interpretazioni e orientamenti che potrebbero cambiare in modo radicale lo scenario. Fino ad oggi la giurisprudenza del lavoro, con poche eccezioni, ha portato avanti un concetto chiaro: il salario fissato dai contratti collettivi firmati dai sindacati “storici” (quelli comparativamente più rappresentativi) deve considerarsi, per definizione, rispettoso dell’art. 36 della Costituzione, il principio generale che impone il pagamento di una retribuzione proporzionata (al lavoro svolto) e sufficiente (a garantire una vita dignitosa). Questo principio è stato messo in discussione di recente da iniziative giudiziarie molto diverse tra loro – cambiano le situazioni sostanziali, gli organi che le hanno gestite e anche gli effetti giuridici – ma accomunate dallo stesso risultato: è stata messa in discussione, in quanto ritenuta inadeguata rispetto al minimo “dignitoso” richiesto dalla Costituzione, la retribuzione fissata da un contratto collettivo.
Gli uscieri del CCNL Vigilanza Privata – Servizi Fiduciari
È arrivata a questo risultato in una sentenza recente del Tribunale di Catania, che ha ritenuto inadeguata la retribuzione oraria prevista dal CCNL Vigilanza Privata – Servizi Fiduciari, siglato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, per le mansioni di usciere. La controversia riguardava le norme del contratto antecedenti a quelle previste dal rinnovo intervenuto nel mese di giugno scorso, ma è comunque importante per i concetti giuridici che sono stati affermati. Questo contratto prevedeva una paga oraria di 4,607 euro l’ora per gli uscieri inquadrati nel livello retributivo F (pari a uno stipendio mensile lordo di 797,14 euro). Il Tribunale ha ritenuto che questo salario non sia rispettoso dall’art. 36 della Costituzione, facendo il confronto con tre altri contratti collettivi, anche questi stipulati dai sindacati rappresentativi, relativi a settori analoghi.
Confrontando questi accordi, è emerso che la retribuzione annua lorda (esclusi straordinario e altre indennità) prevista dal CCNL Servizi Fiduciari è di gran lunga inferiore a quella prevista dagli altri contratti (65,43% di quella prevista dal CCNL proprietari di fabbricati, 52,57% di quella del CCNL terziario, 62,54% di quella del CCNL Multiservizi). Il Tribunale, forte di questi dati, ha rilevato la «macroscopica inadeguatezza» della retribuzione oraria di soli 4,60 euro lordi, ritenendo che non sia adatta a garantire un’esistenza libera e dignitosa, e ha dichiarato la nullità delle relative clausole collettive del Vigilanza Privata e Servizi Fiduciari. Al posto di queste clausole, è stato riconosciuto il diritto al pagamento della retribuzione prevista dal CCNL per i dipendenti da proprietari di fabbricati per il livello D1. Una conclusione non del tutto nuova (c’erano stati alcuni precedenti simili sullo stesso contratto) ma particolarmente rilevante nel momento in cui si discute di salario minimo.
La logistica e la grande distribuzione
Un approccio simile è quello seguito, su un altro versante, dai Pubblici Ministeri di Milano nell’ambito delle indagini avviate alcuni mesi fa a carico di imprese della logistica e della grande distribuzione.
Secondo i magistrati milanesi, si può configurare l’ipotesi di reato per sfruttamento del lavoro anche applicando un contratto collettivo nazionale firmato dai sindacati rappresentativi: questo accade questo – come accade nel caso dei servizi fiduciari – sia prevista una paga oraria che non sia proporzionata alla qualità né alla quantità del lavoro prestato, e non consenta di garantire una «esistenza libera e dignitosa». Viene ritenuto inferiore a questa soglia uno stipendio che, tolte tutte le ritenute fiscali e previdenziali, non arriverebbe a 650 euro netti al mese.
Cosa dicono le sentenze
L’indicazione che viene da questi orientamenti giudiziari – diversi, tra loro, e certamente non definitivi – è molto chiara: i datori di lavoro non possono dormire “sonni tranquilli”, pensando di essere pienamente in regola con il pagamento delle retribuzioni, limitandosi ad applicare un contratto collettivo di lavoro firmato dai sindacati più rappresentativi. Anche il salario fissato da questi accordi può essere messo in discussione, se non ci sono i requisiti minimi di proporzionalità e sufficienza. Non è semplice capire, in concreto, dove si colloca questa “asticella”, ma certamente si può fare tesoro delle indicazioni offerte dalla magistratura del lavoro, stando alla larga da trattamenti economici che, pur essendo fissati da regolari contratti collettivi, siano smaccatamente inferiori alle retribuzioni fissate da altri accordi collettivi di settori affini. Attenzione, quindi, ai “saldi di stagione”: se il contratto collettivo è troppo conveniente per il datore di lavoro, può rivelarsi nullo.
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