Pensionati in corsia, il presidente degli specializzandi «I giovani medici ci sono, ma manca la formazione»

di OPEN

Il presidente dell’associazione dei Giovani Medici Specializzandi ha spiegato a Open che non è corretto parlare di carenza di medici. Piuttosto, siamo davanti a un «imbuto formativo» che lascia fuori gran parte dei laureati

«100 pensionati per 100 giovani»: è questa laformula che ha accompagnato la riforma delle pensioni del Governo gialloverde. Ma per quanto possa prendere le mosse da buoni propositi,vari indizi testimoniano che una visione del genere potrebberivelarsimiope già nel breve periodo. Uno di questi arriva dalla Sanità, dove il turnover generazionale non sembra così immediato come la legge vorrebbe.


Angelo Giustini, commissario della Sanità nel Molise, ha dichiarato di esser stato costretto a riproporre contratti ai pensioanti a causa della «carenza di giovani medici». Per capire a quale problema si riferisse, Open ha contattato Calogero Casà, presidente dell’associazione Giovani Medici Specializzandi. Confermando la «cattiva programmazione passata» anticipata dal commissario, Casà ha specificato che parlare di carenza non è propriamente esatto. «Si tratta», dice, «di un imbuto formativo. I medici ci sono, ma non i bandi per accedere ai percorsi di specializzazione».


Si può parlare di una situazione di emergenza?

«Sì, assolutamente. La nostra associazione esiste da 10 anni e noi abbiamo ricordato l’urgenza a più mandate. Già dal 2010 abbiamo pubblicato i primi comunicati che denunciano la carenza di programmazione anche in termini di formazione. Nello specifico, parlare di carenza di medici è un paradosso considerando la quantità di laureati che rimangono fuori dai bandi. Il numero di contratti finanziati per il post laureamè limitato: un fatto che va a costituire un forte imbuto formativo.

Richiamare dei medici in prepensionamento al fine di coprire la carenza in determinate strutture risulta, per noi, un modo per nascondere la polvere sotto al tappeto. Strutturalmente non si colmano la necessità dei giovani medici.

Parallelamente, altre tendenze politiche vorrebbero far fronte all’emergenza formativa in un altro modo: inquadrare i medici che non hanno completato il percorso all’interno del sistema nazionale, almeno nell’ambito della medicina generale. Ma è un altro espediente per aggirare il problema senza risolverlo in maniera strutturata».

Quali sono i motivi per cui, nella Sanità, non è risolutivo parlare di 100 pensionati per 100 giovani occupati?

«Una visione del genere non tiene conto del funzionamento del Sistema sanitario nazionale e della tipologia di paziente che deve prendere in cura. La formula “100 colleghi vanno in pensione e 100 li rimpiazzano” non esiste in un ambito come questo, perché non è un settore statico. Il tipo di paziente cambia e le malattie da curare sono diverse. Servono specialisti didiversa natura e sottoposti a processi di formazione diversi rispetto a quelli passati.

Certo, esiste l’aggiornamento continuo, che sarebbe richieste anche ai colleghi reinseriti. Però, dal punto di vista programmatico e strutturale, dobbiamo pensare già al paziente di domani e fare riferimento a dei modelli che possano rispondere a delle esigenze che cambiano nel corso del tempo».

Che fine fanno i laureati che non vincono le borse di perfezionamento?

«Tante risorse stanno progressivamente emigrando perché non riescono a entrare nei percorsi i post lauream per via dei pochi finanziamenti stanziati per la formazione. Stiamo entrando nel circolo paradossale per cui, invece di risolvere il problema, iniziamo a importare dall’estero gente già formata, a ricollocare pensionati o a inventare dei riconoscimenti ad hoc per permettere l’inserimento immediato dei laureati».

Arrivati a questo punto, come si può facilitare il turnover?

«I nodi stanno arrivando al pettine: come proponiamo da anni, bisogna prendere deiprovvedimenti rapidi al fine di aumentare i contratti di formazione specialistica. Tutt’ora la capacità di formazione delle scuole non è saturama i neolaureatinon vengono accolti per mancanza di fondi per i contratti.

Dall’altra parte, il punto rimane lo stesso: stimare in maniera corretta e puntuale le carenze, basandosi non su dati storici, ma su valutazioni organizzative. A oggi le mancanze sono prettamente legate al dato storico. I colleghi igienisti riescono a stimare bene le necessità del paziente futuro. Questi due aspetti, i fondi e le stime, non possono essere ignorati».

Quindi mettere in discussione il numero chiuso non è la soluzione?

«Se il grosso dell’imbuto è nel post lauream, non è il numero chiuso a vincolare di più. Il fatto che si parli diaumentare gli accessi a medicina è un espediente di natura politica e propagandistica. Se a mancare sono i medici che hanno accesso ai percorsi formativi, non ha senso andare a risolvere il problema della “carenza” aumentando i numeri delle partenze, senza rivedere percorsi per l’arrivo. Oggi abbiamo tanti rubinetti chiusi e tanti ostacoli che costellano il percorso per diventare medico generale o specialista.

Certo, abolire il numero chiuso è la risposta economicamente più facile. Ma circa 10 mila medici stanno aspettando di avere accessi ai percorsi di formazione. Vorrebbero entrare per rispondere alla carenza, ma non possono. Questo accade quando le risorse sono stanziate direttamente sugli effetti e non sulle cause. Ma è inaccettabile: è una questione di sanità pubblica, non solo di una categoria».

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