Un anno senza Silvia Romano: volontari e cooperanti italiani che continuano anche nel suo nome

Sono passati 365 giorni da quando Silvia Romano, volontaria milanese di 24 anni, è stata rapita in Kenya durante la sua missione umanitaria. La sua storia come ha segnato l’esperienza degli altri volontari italiani in Africa?

Beatrice era in Kenya da pochi giorni quando, nella piccolissima organizzazione locale in cui lavorava come volontaria, arrivò la notizia del rapimento di Silvia Romano. «Era di mattina presto», racconta a Open. «Ero appena arrivata a Nairobi, la capitale, quando iniziò a circolare la notizia che una ragazza italiana, di cui non si sapeva ancora il nome, era scomparsa dall’altra parte del Paese».


Il 20 novembre del 2018 Beatrice aveva 26 anni, appena qualche anno in più di Silvia, l’operatrice milanese partita per fare volontariato in un piccolo villaggio di Chakama, a 80 chilometri da Malindi, nella contea di Kilifi. Esattamente un anno fa, Silvia è stata rapita da un gruppo di uomini armati, e di lei si sono perse quasi totalmente le tracce.


Stando a quel poco riferito dai magistrati di Roma, Silvia sarebbe tenuta sotto sequestro da un gruppo islamista legato ad Al-Shabaab (cellula di Al-Qaeda) in Somalia, Paese lontano qualche centinaio di chilometri da Chakama. Il processo ai tre presunti rapitori, disposto dalla Corte di Malindi, è stato nuovamente rinviato, e Ibrahim Adan Oman, che era stato trovato in possesso di armi e munizioni, è ancora “formalmente” un latitante.

Chakama, Kenya

La costa est, quella della contea di Kilifi, è la parte più pericolosa del Kenya, un territorio relativamente tranquillo rispetto ad altri del Centro-Africa. Una zona, quella orientale, nota agli abitanti locali per essere tracciata spesso dai trafficanti provenienti dalla Somalia.

Gli operatori e i volontari che continuano le missioni

Ma Silvia non era certo l’unica italiana che, spinta dalla voglia di fare qualcosa per gli altri, era andata in Kenya ad aiutare le popolazioni locali nei processi di sviluppo e crescita. Secondo uno studio di Open Cooperazione, le Ong italiane presenti sul territorio kenyano al 2017 sono 47, più che in qualsiasi altro Stato nel mondo.

«Il giorno stesso in cui ho saputo del suo rapimento ho avuto un momento di difficoltà», racconta ancora Beatrice. «Ma so bene che quello che le è successo non è una cosa comune. Lì al confine con l’Uganda, dove mi trovavo in quel periodo, la situazione era molto diversa rispetto al lato est che affaccia sul mare e che, soprattutto, è vicino ai confini con la Somalia».

«Gli operatori della mia organizzazione, la Fountain Youth, mi hanno spiegato che dov’ero io in quel momento non correvo nessun rischio», ha continuato Beatrice. «Così ho scelto di restare. Di portare avanti la mia missione, prolungando il mio soggiorno di qualche mese».

E a portare avanti la loro missione sono anche gli operatori italiani di We Africa, organizzazione fondata da Adriano Nuzzo e che opera in Burkina Faso dal 2015. A differenza del Kenya, nel Paese subsahariano c’è un elevato rischio per la vita, a causa dei combattenti jihadisti che operano nel territorio. Secondo la ricostruzione del database specializzato Armed Conflict Location & Event Data Project (Acled), le vittime di attacchi in Burkina Faso nel 2019 sono già oltre le 1.154 – quattro volte le 306 del 2018 e 10 volte le 116 che si conteggiavano nel 2017.

«La storia di Silvia ci ha sconvolti», dice Adriano a Open. «La paura c’è, non nascondo che ci sia. Però noi lo facciamo per la fede: non possiamo parlare di Dio senza far seguire i fatti. E se uno decide di intraprendere questa strada di solidarietà, lo fa anche a costo dei pericoli».

A farlo star male sono soprattutto i commenti di chi non capisce quale sentimento anima le persone che scelgono di partire come volontari con il solo scopo di restituire all’Africa quello che gli è stato sottratto nel corso dei decenni. «Sentire dire che Silvia se l’è cercata mi fa stare male», dice ancora Adriano. «Chiunque, soprattutto chi fa parte delle Istituzioni, dovrebbe venire qui a dare una mano. Anche per rendersi conto da dove vengono i problemi di chi viene in Europa e in Italia».

I messaggi di solidarietà dalle cooperanti

«Il rapimento di Silvia ha avuto un’eco importante», dice a Open Chiara, giovane volontaria che ha lavorato molto tempo in Etiopia. «Ancora oggi pensiamo spesso. Soprattutto quando sei in un villaggio sperduto, il pensiero vola spesso a lei e a quello che le è accaduto».

Sentirsi vicini a Silvia è una questione inevitabile, quasi chimica per chi fa questo mestiere. Eva Pastorelli, responsabile della onlus Focsiv, ha dedicato a lei una lettera aperta che leggerà il prossimo 30 novembre, in occasione della ventiseiesima edizione del Premio Volontariato Internazionale Focsiv.

«Abbiamo qualcosa in comune, tu ed io?», si chiede Eva. La risposta la trova facilmente in quella che è la postura di tutti i volontari e le volontarie che scelgono di andarsene, anche solo per qualche tempo, dai loro Paesi privilegiati per mettersi a disposizione di chi non è nato con il giusto passaporto.

Foto postata sui social da Silvia Romano in Kenya

Proprio in quella scelta c’è la risposta: «Potevamo godere di questa situazione privilegiata. Ma animate dal desiderio di vivere in una società più giusta e più equa, abbiamo scelto di dedicarci agli ultimi, ai più vulnerabili, aprendo la testa e il cuore e volgendo lo sguardo verso chi non è stato fortunato quanto noi. Perché, come hai scritto anche tu, (tutti) “Meritano di avere le nostre stesse opportunità perché siamo tutti esseri umani in cerca di libertà, realizzazione, felicità”».

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