Università, in Italia si fa carriera con le pubblicazioni su riviste “bufalare”? «Il rischio è reale» – L’intervista

Secondo Mauro Sylos Labini, autore di una ricerca sui casi italiani, circa il 5% dei ricercatori italiani ha pubblicato su riviste “predatorie”

Nel 2010 Jeffrey Beall, bibliotecario dell’Università di Colorado Denver, prende una decisione inedita: dopo anni di email insistenti e piene di errori grammaticali che lo sollecitano a collaborare con sedicenti riviste accademiche, decide di passarle a setaccio, catalogarle e, da disciplinato bibliotecario qual è, di pubblicare una lista di tutte quelle che lui definisce “riviste predatorie”. 


Sceglie di chiamarle così perché pubblicano articoli senza alcun controllo accademico, perseguendo il proprio interesse a discapito della qualità della ricerca. Nel farlo approfittano dell’ingenuità di ricercatori poco esperti e della loro fame di pubblicazioni, come anche della vanità e della leggerezza di accademici senza scrupoli, offrendo loro collaborazioni apparentemente di prestigio che però, una volta smascherate, rischiano di avere tutt’altro effetto. 


In molti non gradiscono l’aggettivo “predatorie”, che non tiene conto del fatto che alcuni ricercatori e accademici approfittino di queste riviste per farsi pubblicare e fare carriera – non è chiaro, dunque, se i ricercatori siano prede o predatori. Altri non apprezzano la lista di per sé: nel 2017 viene rimossa dal sito di Beall – anche se si può ancora trovare su web archive – che intanto cambia lavoro e passa a “nuove aree di ricerca”. Il mondo va avanti: alcune riviste chiudono, ne nascono di nuove, mentre altre continuano a pubblicare articoli che spesso hanno molto poco di scientifico.

Gizmodo / Un esempio di uno studio “farlocco” sui presunti benefici di un maggiore consumo di cioccolato – ripreso da vari media. In questo caso si tratta di un esperimento fatto da John Bohannon per denunciare la piaga delle “riviste predatorie”

Il “Wild West” della scienza passa anche dall’Italia

Anche in Italia è così. Sebbene la maggior parte delle riviste sia stata fondata in Asia e in altri Paesi emergenti, i nostri ricercatori non sono immuni al contagio. «Siamo rimasti incuriositi dalle email che ci chiedevano in un linguaggio un po’ ambiguo di mandare i nostri paper», spiega a Open Mauro Sylos Labini, economista e docente presso l’Università di Pisa.

Insieme ad altri due ricercatori – Natalia Zinovyeva e Manuel Bagues – Sylos Labini ha condotto uno studio per capire l’entità del fenomeno in Italia, oltre che le motivazioni dei ricercatori che pubblicano su riviste “predatorie” nel nostro Paese.

Incrociando i dati di 46mila ricercatori che hanno partecipato all’abilitazione scientifica nel 2012 con la lista di Beall, si scopre che circa il 5% dei ricercatori in Italia avrebbero pubblicato su una rivista del genere. La percentuale cresce tra i più giovani e tra chi lavora nelle università del Sud. Complice l’inesperienza ma anche la natura delle valutazioni che tendono a premiare la quantità a discapito della qualità.

Professore, quali sono i casi più eclatanti in cui le ricerche pubblicate su riviste predatorie hanno prodotto notizie false? 

«Ce ne sono diversi, come lo studio che concludeva che il cioccolato fa dimagrire – finito sulle pagine di diversi quotidiani – o che le irritazioni vaginali si possono curare con lo yogurt, in questo caso riportato dal blog di Gwyneth Paltrow. O anche che il colore di una stanza possa incidere sull’umore. La mia impressione è che per il momento l’inquinamento avvenga su notizie poco serie, ma è un’ipotesi. In ambito italiano abbiamo riscontrato che la situazione è abbastanza grave nell’area del management e dell’economia aziendale»

Come fanno a sfuggire ai controlli?

«In realtà, le riviste accademiche funzionano senza controlli formali. La revisione paritaria (peer review), una procedura che consente alle riviste scientifiche di decidere se pubblicare o meno un articolo solo dopo aver ricevuto il parere di ricercatori esperti, si svolge in modo anonimo per consentire giudizi più liberi. Ma l’anonimato da punto di forza si può trasformare in punto di debolezza: le riviste predatorie millantano di utilizzare la revisione paritaria quando invece pubblicano qualsiasi cosa, nella maggior parte dei casi senza chiedere un parere a nessuno. In altri casi lusingano professori e ricercatori poco esperti, che finiscono per collaborare e cadere nella trappola»

Cosa succede quando una rivista viene identificata come predatoria? 

«Ci sono almeno due esiti possibili: primo, queste riviste scompaiono e non ci pubblica più nessuno. In altri casi invece reagiscono, anche legalmente, sostenendo di non essere predatorie. È quello che è successo probabilmente nel caso del potente gruppo editoriale Frontiers, che Beall aveva giudicato come predatorio. Si tratta di un fenomeno preoccupante soprattutto perché queste riviste rischiano di inquinare la valutazione della ricerca e dei ricercatori»

Cosa può fare il MIUR? 

«Secondo la nostra ricerca, se la valutazione usa liste di riviste troppo ampie rischia di spingere le prede fra le braccia dei predatori. Le faccio un esempio. È appena uscito il bando della prossima VQR, la valutazione nazionale della qualità della ricerca. Le commissioni chiamate a valutare i prodotti della ricerca verranno sorteggiate e per partecipare al sorteggio basterà aver pubblicato tre articoli su una rivista indicizzata in Scopus, una delle principali banche dati di riviste accademiche nate per scopi commerciali. Nella nostra ricerca abbiamo mostrato che molte riviste predatorie sono indicizzate in Scopus, quindi direi che una prima cosa da fare è selezionare i valutatori in modo diverso. Occorre essere più selettivi»

Secondo le vostre ricerche tendono a “cascarci” o a “provarci” soprattutto i giovani ricercatori. C’entrano la precarizzazione del mondo accademico e le difficoltà a cui vanno incontro i giovani ricercatori per emergere?

«Dalla nostra ricerca vediamo che i più giovani hanno una probabilità più alta di pubblicare su queste riviste. Ma più che puntare il dito contro l’ansia di pubblicazione, lo punterei contro l’ansia di pubblicazione indotta da valutazioni imperfette. Direi che l’effetto causale non è tra valutazione e riviste predatorie, ma tra valutazioni fatte male e riviste predatorie»

Quanto è reale il rischio che in Italia oggi i ricercatori possano ottenere l’abilitazione o essere promossi anche grazie alla pubblicazione di articoli su riviste predatorie?

«Il rischio è reale. Sicuramente le regole attuali spingono alcune prede a cadere fra le braccia dei predatori. Pubblicare su riviste predatorie, infatti, aiuta a raggiungere alcune delle soglie rigide previste dall’Abilitazione. E nella nostra indagine, diversi ricercatori ammettono di essere caduti in trappola proprio per raggiungere tali soglie»

Foto di copertinaKayla Velasquez on Unsplash

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