In Evidenza ENISiriaUSA
LE NOSTRE STORIEIntervisteUSA

Mauro Porcini, il visionario di PepsiCo: «Per entrare nell’età dell’eccellenza, smettiamo di credere di essere i migliori» – L’intervista

01 Agosto 2021 - 08:08 Serena Danna
Il senior vice president della PepsiCo, a capo del design della multinazionale, autore del saggio «L'età dell'eccellenza» (Il Saggiatore), spiega perché questo è il tempo migliore per fare innovazione anche in Italia. A patto che si rinunci a qualcosa. Lo abbiamo incontrato

Quando Mauro Porcini, italianissimo senior vice president della PepsiCo e capo del design dell’azienda, è stato chiamato a ripensare la multinazionale era l’unico a occuparsi di design. Correva l’anno 2009 e anche per una gigante come Indra Nooyi – ex amministratrice delegata di PepsiCo, una delle poche donne presenti nelle classifiche mondiali dei migliori capitani d’azienda – il design thinking era più un’intuizione che un progetto. Da allora, il team di Porcini è cresciuto di 300 persone e PepsiCo ha aperto 15 design hub in America, dimostrando di essere capace di intercettare e interpretare i cambiamenti dell’economia e dei consumatori. Porcini, 45 anni – una passione per le giacche stravaganti e per gli occhiali da sole – nel frattempo non ha mai smesso di studiare. Ha scritto un saggio, L’età dell’eccellenza (Il Saggiatore), che racconta in maniera precisa e analitica le nuove frontiere dell’innovazione.   

Chi si aspettava un libro autopromozionale dell’italiano che ce l’ha fatta in America si è trovato davanti un saggio di 400 pagine sulle giuste pratiche per innovare. 

«Uno dei miei sogni era diventare scrittore».

E gli altri?   

«Tutto quello che è visuale: arte, disegno, macchina fotografica. Da piccolo fotografavo qualsiasi cosa. Posso dire che i social hanno messo insieme le mie passioni: la scrittura e i dettagli della vita che catturo con la macchina fotografica». 

Nel suo libro dice che siamo entrati nell’età dell’eccellenza. 

«La società sotto la spinta della globalizzazione, dei new media e dell’ e-commerce può davvero arrivare all’eccellenza». 

La copertina di L’età dell’eccellenza (Il Saggiatore, 424 pagine, 25 euro)

C’è chi sostiene che proprio questi tre fattori abbiano prodotto l’era della mediocrità.

«Viviamo in un mondo in cui chiunque può inventarsi un’idea e avere accesso a fondi. Mi rendo conto che iniziare in Italia spesso è dura, ma oggi puoi andare altrove a cercare i soldi: Arabia Saudita, Israele, America. Di sicuro l’accesso ai finanziamenti è molto più semplice rispetto a 20 anni fa, e il costo della produzione si sta abbassando grazie alle nuove tecnologie. Inoltre il consumatore può essere raggiunto in maniera diretta grazie all’e-commerce e la comunicazione si fa con i social media. Questo crea un nuovo sistema virtuoso per cui una start-up può competere con una multinazionale».

Come? 

«Concentrandosi sui sogni e sui bisogni delle persone, individuando le frustrazioni e provando a trovare e colmare i buchi». 

Mi faccia un esempio pratico. 

«Immaginiamo che io sia una multinazionale che produce un ottimo prodotto: se la comunicazione o il design non sono allo stesso livello del prodotto, il rischio che arrivi qualcuno a scipparmi la leadership è già altissimo. Basta una sola crepa per far sì che un competitor entri a colmare il buco che ho creato. 

In passato era impossibile competere con una multinazionale perché le barriere all’entrata erano imbattibili: mi riferisco alla produzione ma anche alla capacità di acquistare spazi media e alla catena di distribuzione. Oggi tutto ciò si può fare davvero dal garage o dal salotto…La chiave è creare qualcosa che le persone vogliono. Ma è vero anche il contrario: se crei mediocrità non ci sono più – come avveniva in passato – le barriere all’entrata che ti proteggono. Il fallimento è assicurato». 

Lei lavora per una multinazionale che è riuscita a non farsi schiacciare dai cambiamenti degli ultimi decenni. Come?

«La mia azienda ha avuto la lungimiranza di capire che la situazione stava cambiando in maniera radicale. E questo si deve alla visione di Indra e, se posso, alla collisione con questo giovane italiano – che sono io. Quando ci siamo incontrati, lei aveva intuito che il design avrebbe potuto aiutare ma non sapeva come. È così che lavorano i grandi innovatori: hanno un’intuizione e decidono di seguirla». 

Può spiegare cosa intende Mauro Porcini con il termine design?

«Per i settori di moda, automotive, elettronica di consumo, il design è essenzialmente il prodotto. Il design thinking – che è l’oggetto del mio agire e del mio libro – ti aiuta invece a definire quali saranno i prodotti del futuro, un lavoro che in Apple faceva Steve Jobs. E infatti per Indra è stato fondamentale l’incontro con lui. È stato Jobs a spiegarle quanto il design fosse importante per il futuro di un’azienda. Indra veniva dalla finanza ma ha avuto il coraggio di investire su qualcosa di diverso e ha chiesto aiuto a un giovane italiano che aveva un approccio diverso da quello degli altri designer.

Il mio più bel progetto di design non è mai stato un oggetto ma la costruzione di un processo che include prodotto, servizio, comunicazione, esperienza. Un sistema a 360 gradi che ha al centro l’essere umano». 

Qual è il valore globale del brand Italia in questo momento? 

«Il nostro Paese conserva la potenza del brand Italia ma il mondo sta cambiando e quell’etichetta non basta più. Non siamo nel periodo del boom economico post Seconda guerra mondiale quando c’era l’imprenditore illuminato, creativo e tecnologo che ha fatto grande l’industria italiana. Oggi quella stessa industria fa molta difficoltà perché deve espandersi per sopravvivere. Noi siamo bravi con la piccola-media impresa ma non con quella globale. Ora – per vincere – devi avere un approccio globale: è necessario capire come passare da piccola media impresa a grande multinazionale. È una necessità per molti Paesi ma per noi ancora di più».

Perché?

«Pensiamo ai due settori che continuiamo orgogliosamente a rivendicare come italiani: la moda e il mobile. Qual è la più grande azienda della moda? Inditex, cioè Zara, quindi spagnola. E la più grande azienda del mobile? Ikea, dunque svedese.

Troppo spesso sento imprenditori italiani riempirsi la bocca invocando il rilancio del Made in Italy ma è proprio questo l’errore che stiamo facendo: ha senso parlare ancora di Made in Italy? Non è la produzione in patria a rendere un prodotto italiano. Ci pensi: se Zara producesse in Spagna, cambierebbe davvero qualcosa?

Me lo dica lei.

«Non credo proprio. Possiamo continuare a far leva sul brand culturale del design italiano ma dobbiamo avere un approccio molto più strategico e giocare in un panorama globale: produrre in Cina, vendere in America, fare strategia in Italia. Cominciamo a creare aziende con diversity vera, assumendo persone che provengono da tutto il mondo. 

Troppe volte ho visto affacciarsi sul mercato americano aziende che arrivano con l’arroganza del know-how italiano e dopo poco si schiantano. Mi rendo conto che c’è una gran paura a emanciparsi dal Made in Italy perché rischiamo di perdere quello che storicamente ci ha permesso di avere un significato nel mondo. Vale per il Made In Italy come per qualsiasi altro valore fondante di un’azienda».

Ovvero?

«Prenda la mia azienda: Pepsi è stata incredibile per 100 anni e adesso fa fatica perché tutta la categoria cola fa fatica. Negli anni ’80 c’era la supremazia di Pepsi e Coca-Cola: oggi c’è l’acqua aromatizzata, la Kombucha , gli energy drinks… Diventa necessario chiedersi: cosa è Pepsi oggi? E non mi riferisco solo al prodotto, ma anche al brand. Come può essere rilevante rispetto alle nuove generazioni? Come fare leva sulla tradizione del brand senza tradirlo? Pepsi deve essere una cola o può essere altro? Queste sono le domande da farsi. Devi traghettare il tuo marchio nel futuro. Se tu sai dove vuoi andare, il percorso è più semplice. Per esempio, se punti sul fatto che il futuro è nella personalizzazione delle bevande, devi chiederti: come ci arrivi da dove sei oggi? 

Tornando all’Italia, oggi più che mai dobbiamo chiederci quali sono gli aspetti che definiscono la nostra identità e che hanno rilevanza anche al di fuori del Paese. Ogni tanto pensiamo di avere rilevanza e non l’abbiamo, di essere i migliori e non lo siamo, o almeno non siamo più i soli ad esserlo. Le racconto un episodio».

Prego.

«Una decina di anni fa è uscito un documentario sul design dal titolo Objectified. Il regista Gary Hustwit non veniva da quel mondo, né tantomeno lo conosceva. Vado in Spagna alla presentazione e mentre lo guardo realizzo una cosa incredibile: nel film non c’è neanche un italiano. Ci sono i fratelli Campana dal Brasile, c’è Paola Antonelli, newyorkese a tutti gli effetti, ci sono svedesi, scandinavi… Alla fine della proiezione alzo la mano e chiedo: “Come mai non c’è neanche un italiano?”. Hustwit ride e risponde: “Se è per questo, non c’è neanche nessuno dall’Uruguay”. Per me è stata una rivelazione: all’epoca ero anche io uno di quegli italiani tronfi di orgoglio per il design Made in Italy. Lavoravo in 3M dove facevo proprio quello: vendevo design italiano. Da quel momento ho realizzato che per continuare dovevo capire cosa definiva l’italianità al di là della retorica, e poi – cosa fondamentale – dovevo rispettare gli altri. In definitiva, occorre togliere la patina di arroganza che deriva dalla nostra storia». 

Lei come ci è riuscito? 

«Imparando a riconoscere i punti di forza e di debolezza. Ho iniziato a lavorare su processi, strategie, sulla capacità di delega che tanto facciamo fatica a sviluppare. Una difficoltà che a mio parere proviene dritta dal fatto che siamo diventati una nazione solo nel 1861 e fino a quel momento ci facevamo la guerra. Questo approccio italiano del conflitto costante lo vedi ovunque e ti spiega anche perché Ikea non è nata in Brianza o Inditex in Toscana. Tutte le piccole aziende italiane piuttosto che allearsi, si fanno la guerra». 

A proposito di guerra, all’inizio non è stato facile per lei farsi amare in America.

«Le aziende tendono a rigettare tutto ciò che non riconoscono. Ho impiegato anni a insegnare all'”organismo” che non ero un virus e quindi che non doveva produrre anticorpi per combattermi. Se porti dentro un’azienda qualcuno supportato e protetto dall’amministratore delegato, questa persona entra con un grande potere perché all’inizio l’ad gli permette di fare qualsiasi cosa, dicendo che è lì per cambiare. 

Ho visto persone entrare come carri armati, distruggere ponti e poi scomparire alla velocità della luce. E ho capito una cosa fondamentale: quando un innovatore entra in un’azienda ha certo bisogno del sostegno che arriva dall’alto – necessario per proteggere la nuova cellula -, ma ancora di più serve il sostegno dal basso perché solo quello ti consente l’integrazione. Tutto deve crescere dalla pancia: se i processi sono solo calati dall’alto, sono destinati a fallire. 

Fare innovazione all’interno di un’azienda, applicando l’approccio design driven, vuol dire ridisegnare completamente la cultura dell’azienda, capire se ci sono le persone giuste, partendo dal top, e poi integrare le culture e i modi di lavorare diversi che ci sono in azienda. Ed è qui che ho capito una cosa fondamentale: l’innovatore capace di cambiare l’azienda – quello che io definisco unicorno – deve essere dotato di umiltà, resilienza e grande empatia. La visione da sola non basta mai». 

In copertina: Mauro Porcini. Elaborazione grafica: Vincenzo Monaco

Leggi anche:

Articoli di LE NOSTRE STORIE più letti