Questo non è un film da guardare dallo schermo del pc mentre si scrolla Instagram dall’iPhone. È grande cinema, da vedere in sala, in lingua originale, tre ore dense con gli occhi e le orecchie spalancati. Oppenheimer pretende da noi la massima attenzione. Qualcuno vi dirà che è troppo lungo, commento vuoto di senso a prescindere, ma ancor più se si parla di Christopher Nolan, che il tempo lo fa a brandelli. Un blockbuster sofisticato, forse non per tutti. Ma vale la pena provarci.
Basato sulla biografia premio Pulitzer 2006 Oppenheimer – Trionfo e caduta dell’inventore della bomba atomica di Kai Bird e Martin J. Sherwin (Garzanti, traduzione di Alfonso Vinassa de Regny), il film arriva nel momento giusto. Parlare oggi di bomba atomica, con l’Occidente nel pieno di una guerra contro la Russia, che in questo momento ha il più grande arsenale nucleare al mondo, permette di comprendere fino in fondo la portata drammatica dell’invenzione di Oppenheimer. Tra scienza, storia, psicologia e responsabilità politica.
Il dramma di Prometeo
Perché Oppenheimer – e Nolan lo dice sin dalla prima scena – parla soprattutto del dramma di Prometeo, che ha dato ai greci il potere del fuoco, la techne che supera l’uomo. Che serpeggia in tutta l’esistenza del fisico, come una retta che la attraversa, come un ago intorno al quale si svolge e si annoda il filo della sua vita. Esplicitato in una battuta del sempre immenso Kenneth Branagh, che interpreta Niels Bohr: «Lei è l’uomo che ha dato loro il potere di distruggere se stessi, e il mondo non è pronto». Come Prometeo, Oppenheimer dona agli uomini la tecnica, aprendo un vaso di Pandora che non si può più richiudere, che arriva fino a noi con la stessa violenza, e forse più, di un secolo fa. Generando nello spettatore una catena di riflessioni sulla portata delle evoluzioni della scienza nella nostra società: abbiamo scatenato la tecnica e la nostra capacità di inventare e di creare supera la nostra capacità di prevederne gli effetti. Verso la distruzione del nostro mondo.
La faccia incredibile di Cillian Murphy
Ecco un altro eroe di Nolan lacerato dalla responsabilità. Il regista si riprende dalla battuta di arresto di Tenet, con la sua ostilità narrativa, per tornare a un film meno plastico e più emozionale, in cui i personaggi sono vivi e spezzati, seppur sempre gelidi. Ma stavolta è un gelo introspettivo, che la faccia incredibile di Cillian Murphy sembra creata apposta per interpretare: nella durezza dei lineamenti, nel ghiaccio degli occhi, che pur sono spesso chiusi, proprio a rappresentare questo rovello interiore. Un tormento suggerito per tutto il film dal suono e da alcuni frame che spezzano la narrazione, che riconosceremo soltanto verso il finale, quando Oppenheimer a Los Alamos tiene un discorso all’indomani di Nagasaki davanti ai suoi adepti. Tutti inneggianti a Oppie, urlanti, disgustosamente esaltati, inquietanti più delle immagini della tragedia nucleare.
Il suono, la fotografia e i popcorn
È qui la capacità magistrale di Nolan. Orchestra tutti i reparti, è sceneggiatore unico e si vede. Tutto coincide stilisticamente, tutto è impeccabile, tutto è a servizio del racconto, e anzi di più: ogni aspetto, dal montaggio al suono alla fotografia ai colori, nutre il racconto stesso, muove delle leve, rappresenta dei sentimenti, fa sorgere domande e porta risposte. Sinestesia. I suoni acidi mischiati con i violini (ecco, magari i popcorn mangiateli dopo così non rovinate l’audio al vicino), l’esplosione dei bianchi, i crescendo assordanti, ricordano la portata del fatto e portano in uno stato di inquietudine (o gli danno voce?). I morbidi cambi di fuoco ci portano a dubitare dell’integrità dei personaggi. Il passaggio dal bianco e nero ai colori isola il racconto di Lewis Strauss (l’antagonista) da quello di Oppenheimer. Ci ricorda che la pellicola non è un vezzo nostalgico, ma una tecnologia ancora non superata dal digitale nella sua funzione primaria: quella di trasmettere emozioni.
Una scrittura sofisticata che scivola nelle immagini senza spiegazioni artificiose: le informazioni ci arrivano spezzettate e compongono, solo alla fine, il quadro finale e la psicologia dei personaggi. Il cast stellare aiuta (in fila dietro Murphy: Emily Blunt, Robert Downey Jr., Matt Damon, Gary Oldman) ma la direzione degli attori è uno dei punti di forza del film, insieme alla scrittura dei dialoghi, soprattutto tra Oppenheimer e il generale Groves e con la moglie Kitty, personaggio femminile forte del film (non che quello “debole” di Jean, l’amante irresistibile e instabile, sia meno affascinante).
Meglio arrivare preparati
Nolan abbandona le trame intricate dei suoi lavori precedenti per un racconto in cui si incrociano due linee temporali. La prima è la storia di Oppenheimer dagli studi universitari alla conclusione del Progetto Manhattan (il programma nucleare americano da lui diretto) e quindi agli sganci atomici di Little Boy e Fat Man sul Giappone. Introdotta da una serie di effetti speciali che ricorda Tree of life di Terrence Malick – ma senza la stessa presunzione. La seconda, che poi è il tema principale del film: il processo Oppenheimer. Il trionfo e la caduta, Prometeo che scatena la tecnica versus Prometeo incatenato. Meglio arrivare preparati sulla storia di Oppenheimer per cogliere quante più scelte del regista. Anche se, come per tutti i film di Nolan, appena usciti dalla sala sorge il sospetto che l’unico modo per comprenderne ogni dettaglio sia rivedere il film, almeno una volta. Il miglior blockbuster degli ultimi dieci anni.
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