I quadri rubati dal Palazzo Ducale di Urbino nel ‘75, originali e copie, i sistemi di sicurezza: dietro le quinte dei musei italiani – Il video 

in collaborazione con Scuola IMT Alti Studi Lucca

I sistemi di antifurto nei musei sono diventati obbligatori molto più recentemente di quanto si possa credere, mentre l’80% delle opere non viene quasi mai esposta

Quali sono stati i primi tentativi di creare un marchingegno volante? Quali erano gli standard di bellezza per uomini e donne? Come si sono evoluti gli sport moderni? Qual era il modello di città ideale nel Rinascimento? Le risposte a tutte queste domande hanno un aspetto in comune: si trovano nei musei. Spesso si immagina la visita a un museo come un’osservazione delle opere e delle tecniche adottate per crearle, ma quello attraverso i corridoi e le sale è un vero e proprio viaggio nel tempo, durante il quale è possibile comprendere il passato per poter interpretare il presente e immaginare il futuro di una grande varietà di ambiti. Il patrimonio culturale «è un dominio complesso verso cui convergono numerose discipline. Non dobbiamo pensare soltanto all’archeologia o alla storia dell’arte, ma ad altri ambiti quali la storia, la filosofia, il diritto, l’economia», spiega Emanuele Pellegrini, professore associato di Storia dell’Arte alla Scuola IMT Alti Studi Lucca


In questa puntata analizzeremo alcune peculiarità dei musei, dai sistemi di sicurezza all’utilizzo di copie per preservare le opere originali, passando per lo storico furto del 1975 al Palazzo Ducale di Urbino.


Il furto del secolo al Palazzo Ducale di Urbino

Non sempre l’arte gode e ha goduto del giusto riconoscimento e della giusta cura. Basti pensare che fino al 1975 nei musei non erano obbligatori i sistemi di antifurto. Nella notte tra il 5 e il 6 febbraio del 1975 la nebbia avvolgeva il centro medievale di Urbino. La visibilità era poca e i suoni ovattati. Condizioni perfette per i ladri che fecero irruzione nella Galleria Nazionale delle Marche, con sede nel Palazzo Ducale della città, frantumarono il vetro di una finestra al primo piano e svanirono nel buio con tre opere dal valore inestimabile: La Muta di Raffaello, la Madonna di Senigallia e la Flagellazione di Piero della Francesca. Il Palazzo Ducale di Urbino all’epoca era sprovvisto di allarmi e telecamere. I custodi percorrevano i corridoi effettuando ricognizioni regolari e facilmente prevedibili. Le impalcature sulla facciata scelta per l’irruzione fecero il resto. 

WIKIMEDIA COMMONS / ZYANCE | Palazzo Ducale di Urbino visto dalla Fortezza Albornoz

Il ritrovamento dei dipinti

La dinamica del colpo mette in luce quanto, poco meno di cinquant’anni fa, la sensibilità circa il patrimonio artistico e culturale del nostro Paese fosse differente da quella attuale. Ma proprio da allora, qualcosa iniziò a cambiare. Il furto – spiega la storica dell’arte Aurora Fapanni e dottoranda in Museum Studies alla scuola IMT Alti Studi Lucca – «fu un vero scandalo. I giornali rilanciarono la notizia e la questione arrivò addirittura in Parlamento». «Il ministro Spadolini dovette assicurare che non sarebbe mai più successa una cosa del genere«. Successivamente, spiega ancora Fapanni, «ci fu un adeguamento legislativo che impose a tutti i musei italiani di avere un adeguato sistema di sorveglianza». E le opere? I dipinti vennero ritrovati nel marzo del 1976 a Locarno, in Svizzera, poche ore prima che i ladri le distruggessero dopo aver per mesi tentato invano di venderle. 

Copia oppure originale? 

In quel caso i ladri rubarono delle opere autentiche, ma non è raro che le copie delle opere d’arte vengano trattate come se fossero dei lavori originali. Un caso ancora impresso nella mente di molti è quello delle teste di Modigliani, che nel luglio del 1984 vennero trovate sul fondo di un canale a Livorno. In quella calda giornata tutto sembrò allinearsi. Leggenda vuole, infatti, che Amedeo Modigliani gettò tre teste da lui scolpite nello stesso canale nel 1909. Ma quelle teste non erano state scolpite dall’artista, bensì da tre studenti universitari livornesi i quali qualche mese dopo confessarono lo scherzo che aveva tratto in inganno molti esperti, in un’intervista per Panorama. Al di là di episodi di questo tipo, ci sono casi in cui le opere non vengono esposte al pubblico in maniera da preservarle. In altri, alcune parti di un’opera vengono ricostruite, ma in modo che si capisca quali sono le ricostruzioni e quali le parti originali. 

Lo studiolo di Federico da Montefeltro

Uno di questi casi riguarda lo studiolo di Federico da Montefeltro, uno dei luoghi più iconici del Rinascimento italiano. «Se consideriamo lo spazio ligneo, gli intarsi sono tutti quelli originali, mentre se spostiamo lo sguardo nella parte superiore della stanza ci accorgiamo dalla differente luminosità dei ritratti che alcuni di questi non sono quelli originali», spiega il dottorando  in Analysis and Management of Cultural Heritage presso la Scuola IMT di Lucca Marco Foravalle. Continua Foravalle: «Questo ciclo degli uomini illustri venne smembrato nel corso del Seicento e parte di esso finì a Roma e poi al Louvre, dove si trova tuttora. Ma perché si è deciso di inserire delle copie? Perché altrimenti questo spazio sarebbe pieno di buch».

Alla ricerca del contesto perduto

Invece, «inserendo delle riproduzioni fotografiche di diverso colore e di diversa luminosità, il visitatore ha la possibilità di vedere questo spazio e di ricostruirne l’unità visiva», aggiunge Foravalle. Una soluzione di questo tipo può essere scelta anche quando si vuole preservare un’opera. Un caso simile è quello del Colosseo, in cui la parte restaurata ha un colore diverso da quella originale. E sono migliaia i visitatori che ogni giorno scattano foto della statua del David in Piazza della Signoria a Firenze senza sapere che quella che stanno immortalando è una riproduzione, mentre l’originale si trova nella Galleria dell’Accademia a Firenze. Lo stesso accade alla Fontana delle Tette di Treviso, con l’originale ben protetta in una teca, mentre una copia continua a zampillare acqua dai seni. Ci sono poi tante opere che il pubblico non può mai vedere, o quasi. 

WIKIMEDIA COMMONS / FEATURED PICS | Foto del Colosseo dove sono evidenti le differenze materiali e cromatiche delle parti restaurate rispetto alle porzioni originali

Opere invisibili

«Più dell’80% degli oggetti d’arte conservati nei musei è situato nei depositi, sia per mancanza di spazi, sia  per la vastità del patrimonio culturale italiano», aggiunge infine Livia Fasolo, dottoranda in Analysis and Management of Cultural Heritage alla Scuola IMT Alti Studi di Lucca. E conclude: «Quali strategie adottano i musei per valorizzare queste opere? Spesso si ricorre alla rotazione degli oggetti esposti ma anche all’organizzazione di mostre temporanee, come quella recentemente curata da Luigi Gallo, Andrea Bernardini e Valentina Catalucci alla Galleria Nazionale delle Marche. Un altro motivo per cui degli oggetti non sono visibili al pubblico è perché sono particolarmente fragili e devono essere conservati in spazi appositi. È il caso dei disegni e delle stampe. Sono degli oggetti quasi mai visibili perché dopo qualche mese di loro esposizione devono essere custoditi al buio per anni».

La prossima puntata

Quella che avete appena letto è la quinta puntata di Pillole di Scienza, la serie di Open in collaborazione con la Scuola IMT Alti Studi Lucca. Nel primo episodio abbiamo analizzato come funziona la blockchain, quali opportunità offre questa tecnologia, e come riconoscere le truffe che la sfruttano per potersi difendere. Nel secondo abbiamo sfatato sette miti sugli hacker e la sicurezza informatica. Nel terzo abbiamo iniziato a parlare di intelligenza artificiale e di come questa tecnologia può permette di diagnosticare i tumori al seno e di migliorare il sistema trasfusionale italiano. Nel quarto ci siamo concentrati sulle potenzialità dell’IA nell’analisi dei sogni e nel tracciamento oculare. Continuate a seguirci per l’ultimo episodio sul patrimonio culturale italiano. La prossima settimana, sempre su Open. 

Emanuele Pellegrini è professore associato di Storia dell’arte presso la Scuola IMT Alti Studi di Lucca. È responsabile dei percorsi dottorali in  Analysis and Management of Cultural Heritage e Museum Studies. Si occupa di museologia e storia del collezionismo.

Marco Foravalle è dottorando in Analysis and Management of Cultural Heritage presso la Scuola IMT di Lucca. Alunno del Collegio Ghislieri, si è laureato in Filosofia presso l’Università di Pavia. Si occupa di collezioni coloniali in Italia e della storia delle loro provenienze nei musei e nei palazzi reali. 

Livia Fasolo è dottoranda in Analysis and Management of Cultural Heritage alla Scuola IMT Alti Studi di Lucca. Si è laureata all’École du Louvre di Parigi e specializzata all’Università degli Studi di Udine. Si occupa di storia della critica d’arte e della fortuna dell’incisione contemporanea.

Aurora Fapanni è storica dell’arte e dottoranda in Museum Studies alla scuola IMT Alti Studi Lucca. Collabora con la Galleria Nazionale delle Marche, dove studia gli allestimenti museali sul piano storico-critico e materiale. 

Per questo articolo si ringraziano la Galleria Nazionale delle Marche | Palazzo Ducale di Urbino, il direttore Luigi Gallo, e l’architetto Stefano Brachetti.

Autore: Federico Monelli
Filmmaker: Angelo Poli 
Montaggio: Vincenzo Monaco 
Project Manager: Chiara Giudici  
Testo e ricerca: Antonio di Noto

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