Parla il fratello di Matteo Falcinelli: «Non ci fermeremo. Inaccettabile che gli agenti Usa dicano che lo hanno incaprettato per la sua sicurezza» – L’intervista

Marco Falcinelli a Open: «E’ stato torturato, le prime risposte del Dipartimento di polizia non possono bastare»

Legato, malmenato, in lacrime: il video che ritrae il 25enne italiano Matteo Falcinelli, disarmato e supplicante, nelle mani della polizia di Miami, ha fatto il giro del web scatenando proteste e indignazione. Il giovane, come si vede dalle immagini registrate dalle body cam degli agenti, è stato sottoposto all’Hogtie restraint: con una cinghia hanno legato i piedi alle manette dietro la schiena, tirando per 13 minuti. Originario di Spoleto, Falcinelli si trovava negli Usa per frequentare un master alla Florida International University (al Biscayne Bay Campus). L’episodio risale alla notte tra il 24 e il 25 febbraio scorso, ma i video sono usciti il 12 aprile, nel corso del processo a suo carico, terminato con l’ammissione al Pre trail intervention (Pti), un programma rieducativo. I poliziotti scriveranno di essere intervenuti perché il ragazzo ha creato problemi in un locale e si sarebbe poi opposto all’arresto, facendo resistenza. Ma i video raccontato un’altra verità. E suo fratello Marco, 28 anni, parlando con Open sembra non avere dubbi: «Matteo è stato torturato».


La vostra famiglia sta facendo i conti con una situazione molto delicata. Come state?

«Sicuramente siamo finiti al centro di una vicenda molto più grande di noi. Io, personalmente, non so nemmeno bene come comportarmi. Cose del genere le senti al telegiornale, le percepisci lontane: non pensi mai che possano davvero capitare a te. Quando ho visto il primo video di Matteo nelle mani della polizia sono rimasto sotto shock. Le forze dell’ordine devono fare il loro lavoro, far rispettare le leggi. Ma nulla giustifica la brutalità di queste azioni. Non capisco cosa sia scattato nella mente di quegli individui. I metodi utilizzati sono tortura, non sono ammissibili».


Nelle ultime ore il Dipartimento di polizia statunitense ha dichiarato che Matteo è stato incaprettato «per la sua sicurezza». Credi a questa spiegazione?

«Assolutamente no. Se pensavano che Matteo avesse bisogno di aiuto avrebbero dovuto chiamare un medico, non incaprettarlo. E in ogni caso, dai video si capisce bene il perché abbiano fatto ricorso alla pratica: per minacciarlo. C’è un altro video, in cui mio fratello dice che non riesce a respirare. Un poliziotto ha risposto che dal momento che riusciva a parlare, riusciva anche a respirare. Ma che logica è? Avrebbe dovuto soffocare, per dimostrare che stava davvero male?»

Hanno detto di averlo immobilizzato perché stava «ripetutamente sbattendo la testa contro la porta della cella».

«Lo ha fatto per distrarsi dal dolore che sentiva alle braccia. Mentre lo ammanettavano, hanno stretto così forte che hanno danneggiato i nervi dei suoi polsi. Adesso fa fatica a muovere le mani, a fare i più piccoli gesti. Non parliamo di staccare 100 kg con il bilanciere: la prima settimana non riusciva nemmeno a tenere una tazza in mano».

Adesso Matteo si trova ancora a Miami, negli alloggi del campus universitario. Quand’è l’ultima volta che lo ha sentito, e che cosa ti ha detto?

«Io lo sento tutti i giorni, un paio di volte al giorno. Cerco di distrarlo raccontandogli cose simpatiche che accadono a me, e lui mi aggiorna su quello che fa. Parliamo di cose normali, lo aggiorno sulle partite della Champions League. In questa fase dobbiamo stargli vicino il più possibile: oltre al danno fisico ha un forte danno psicologico, è sotto psicofarmaci, è seguito da psicologi e psichiatri. Mia madre lo ha raggiunto in America. L’ha richiesta lui, appena è tornato in libertà: è scoppiato a piangere, voleva la mamma. D’altronde dopo l’arresto ha passato tre giorni in galera, senza la possibilità di contattare nessuno, né di farsi contattare. Da solo, in un Paese straniero di cui non conosceva leggi e procedure, dietro le sbarre… e senza nemmeno poter rassicurare la sua famiglia».

Come avete saputo del suo arresto?

«Ci hanno informato i suoi amici. Io sono stato il primo che hanno contattato. Erano le 5 del mattino del 26 febbraio: ho sentito il telefono squillare, era un numero sconosciuto. Non ho risposto, pensando che avessero sbagliato, e sono tornato a dormire: dopo poche ore sarei dovuto andare a lavoro. Ma il telefono ha continuato a squillare. Ho capito che qualcosa non andava, e ho deciso di rispondere. Mi hanno spiegato che Matteo era sparito dalla sera del sabato prima. I suoi amici si erano preoccupati: avevano cercato di capire se era stato ricoverato in ospedale, avevano consultato un sito americano che segnala le persone disperse… ma avevano infine trovato il suo nome nel portale della polizia. Abbiamo scoperto così che era stato arrestato».

Che spiegazione è stata data inizialmente per giustificare l’intervento delle forze dell’ordine?

«Ci tengo a precisare che noi fino a che lui non è uscito non avevamo nemmeno un’idea del motivo dell’arresto. Così come, all’inizio, non ce l’aveva lui. In un video è ripreso mentre dice: “Ma io ho pagato tutto”. Pensava lo avessero fermato perché non aveva pagato qualcosa. I poliziotti nel verbale scrivono che Matteo si era rivolto a loro chiedendo che lo aiutassero a recuperare i 500 dollari che avrebbe speso nel locale. Loro si sarebbero opposti e, sempre stando al verbale, lui avrebbe iniziato a spintonarli. Ma tra questa ricostruzione e i video ci sono diverse incongruenze. Si vede che si limita a indicare con un dito il distintivo o la targa di uno dei poliziotti, e subito dopo viene ammanettato e sbattuto a terra con un ginocchio sul collo. Allo stato attuale, dunque, non ci sono video che confermino quanto scritto nel verbale. Se ci sono altri filmati, abbiamo chiesto alla polizia di Miami di rilasciarli».

Il Dipartimento di Stato americano ha dichiarato di «riconoscere le preoccupazioni dell’Italia», la Procura di Roma ha avviato un’indagine sulla vicenda. Come avete accolto queste notizie?

«Chiediamo il supporto da parte di tutte le autorità per venire a capo di questa storia, per fare chiarezza e ottenere giustizia. Sicuramente siamo contenti che l’accaduto non stia passando inosservato: cose del genere non devono più succedere. Matteo dovrebbe tornare in Italia la prossima settimana. A quel punto anche noi ci muoveremo per vie legali, i nostri avvocati ci stanno già lavorando».

Vi siete sentiti supportati dal governo italiano?

«Sicuramente si è adoperato per avere tutti i chiarimenti possibili, attraverso i consoli e gli ambasciatori. Mia madre e mio fratello sono stati contattati da diversi politici, che tuttora sentono spesso, come il ministro degli Esteri Antonio Tajani. Ringraziamo tutti e rimaniamo in attesa dell’esito delle indagini. Non so dire se si potrebbe fare di più: è la prima volta che ci ritroviamo in una situazione del genere, non abbiamo un metro di paragone».

Secondo lei come si concluderà questa vicenda?

«Non lo so davvero. Posso solo sperare che finisca tutto il prima possibile. E che nella vita di mio fratello rimanga solo un brutto ricordo, e non un trauma invalidante. C’è un episodio a cui continuo a pensare. Pochi giorni dopo aver lasciato l’ospedale, Matteo aveva deciso di uscire con un amico. Erano andati a ordinare delle pizze in un posto noto nella zona, perché fa degli sconti speciali una volta a settimana. Nel ristorante, hanno incontrato uno dei poliziotti che lo avevano maltrattato. Matteo si era agitato, evitava di guardarlo negli occhi. Ma il suo amico ha notato che l’agente lo stava fissando, continuava a guardarlo in modo molto nervoso, turbato. Che motivo aveva di comportarsi così se aveva fatto solo il suo dovere?»

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