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Il neurologo e il disturbo bipolare: «Per curarlo ci vogliono i farmaci e il litio»

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Il professor Sorrentino ha scritto un romanzo sulla malattia e sulle vie d'uscita: la psicoanalisi? Solo dopo i trattamenti

Il professor Rosario Sorrentino è un «neurologo prestato alla psichiatria». Ha scritto un «romanzo bipolare» dal titolo Due di me, in uscita per Aliberti. E oggi al Corriere della Sera parla del disturbo bipolare, di cui sono affetti un milione di italiani, sempre in altalena tra euforia e depressione. Sorrentino racconta la storia di Francesca, ovvero una di quei pazienti «che, quando non vengono trattati, li trovi sui cornicioni dei palazzi, se arrivi in tempo». E ora che l’ha salvata racconta che «riconosce in sé Francesca A e Francesca B, che si danno il cambio senza preavviso. La sua preferita è la prima, che trabocca di vita, sempre in movimento, che tutto sa e tutto fa, capace di non dormire per giorni, grazie a un’energia inesauribile. Ma che, se la contraddici, s’imbestialisce, ti si scaglia contro. La seconda è quella depressa che tenta di uccidersi».

Francesca A e Francesca B

Sorrentino spiega a Candida Morvillo che ha deciso di parlare del disturbo bipolare «perché se ne parla a sproposito, si dice di qualcuno che “è bipolare” per insultarlo e si fa poco per abbattere lo stigma del disturbo mentale che qui è doppio, perché c’è quello sociale e quello che si autoinfligge il paziente, vergognandosi. Poi, perché il disturbo bipolare, se curato male, ha un impatto altissimo su chi ne soffre e sulle loro famiglie: nelle fasi di umore espanso, prevalgono comportamenti disinibiti, privazione di sonno, eccessi di alcol, droghe e spese. Infine, ne scrivo perché è diagnosticato troppo tardi: in media, a dieci anni dall’insorgenza». La storia di Francesca è quella «di una paziente tipica, scritta con molta verità e molta fantasia. Il disturbo è già presente in famiglia, nel padre, e lei ha il terrore di ereditare i suoi sbalzi d’umore».

Il suicidio e la terapia

Per questo, quando a vent’anni emergono i primi sintomi, «rifiuta la diagnosi e rifiuta il litio e i farmaci prescritti. A un certo punto, tenta il suicidio, ma fallisce». A quel punto si butta sulla psicoanalisi: «Va da una psicologa freudiana che le sembra il messia, perché le chiede se deve prendere i farmaci, e la freudiana: se lo scordi, dobbiamo ascoltare il suo dolore, prenda invece dei fiori di Bach. Francesca tornerà dal neurologo solo dopo cinque anni d’inferno». Secondo Sorrentino per alcune diagnosi «i farmaci sono la terapia di prima scelta. Perché soffrire inutilmente? Poi, può essere utile affiancare una psicoterapia comportamentale cognitiva, ma limitarsi a colloqui psicanalitici può ritardare la diagnosi ed essere pericoloso perché nei bipolari il rischio di suicidio è quindici volte maggiore che nella popolazione generale».

Il litio

Francesca invece teme il litio «per la paura di perdere la versione euforica di sé. Invece, il litio è il farmaco che più riduce le ideazioni autolesive e suicidarie: stabilizza lo squilibrio chimico che c’è nel cervello a carico di trasmettitori come noradrenalina, dopamina, serotonina… Ognuno ha il suo dosaggio e io con umiltà lo cerco aumentando una goccia ogni tre giorni». Le altre indicazioni di terapia: «È fondamentale non assumere alcol e droghe, dormire un numero di ore adeguato, evitare gli stress, fare sport. E alcol e droga sono i fattori che spesso slatentizzano la malattia, di solito intorno ai vent’anni. In più, serve gioco di squadra coi familiari, per cogliere i segnali di episodi depressivo o maniacali, come l’irritabilità».

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