«Charlie Chaplin è un genio eterno, i suoi film sono ancora attuali» – L’intervista al critico cinematografico

Sono passati 130 anni dalla nascita di uno dei più grandi padri del cinema, Charlie Chaplin, simbolo e critico allo stesso tempo del sogno americano. Approfondiremo la figura del Vagabondo attraverso alcune delle sue pellicole più celebri con l’aiuto del critico cinematografico Emanuele Rauco

Come si può raccontare Charlie Chaplin senza tener conto dell’infanzia difficile passata in una Inghilterra ancora vittoriana? Con una madre attrice fallita e alcolizzata, mentre il vero padre restò sempre ignoto.


La vita in estrema miseria, con una istruzione precaria e l’esperienza fin da bambino come attore di strada sono stati formativi, altrimenti non avremmo mai avuto il grande genio del cinema di cui oggi ricordiamo la nascita, il 16 aprile 1889, 130 anni fa.


Sarà grazie alla compagnia teatrale di Frad Karno se il giovane Chaplin riuscirà a farsi notare col suo personaggio dell’ubriaco, portato in giro con successo negli Stati Uniti, assieme a un’altra futura icona del cinema e della commedia: Stan Laurel (da noi meglio conosciuto come Stanlio).

In questo periodo Chaplin inventa il personaggio che lo renderà celebre: quello del vagabondo; figura facilissima da imprimere nella mente, frutto di un lavoro di sintesi rigoroso, che mette assieme i reali protagonisti della miseria nelle strade della Londra meridionale, in cui visse il Chaplin bambino.

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Wikipedia |Bombetta, scarpe e bastone utilizzati dal personaggio di Charlot.

La dignità del vagabondo e il rigore vittoriano

Vestiti sgualciti, bombetta da due soldi, la camminata buffa tipica di chi calza scarpe scomode che procurano dolorose ferite e calli. Eppure non mancava mai la cravatta e il bastone da passeggio, a sottolineare il bisogno di conservare comunque la dignità.

Quell'Inghilterra puritana, che emargina le famiglie difficili come la sua – con una madre rinchiusa in manicomio quando aveva appena 14 anni – rimase nell’anima del futuro attore e regista.

Mantenne sempre un rigore e una fissazione maniacale per la perfezione che sarà croce e delizia degli attori della sua futura compagnia. Sono i tempi del cinema muto in cui saper produrre scene dalle dinamiche precise e con una mimica al passo coi tempi comici, sono alla base della competizione tra le già numerose produzioni della nascente Hollywood.

Il 1915 sarà l’anno della consacrazione. Comincia a essere quasi indistinguibile dal personaggio del vagabondo, con quei baffetti che ancora non potevano far pensare a Hitler. Chaplin ha anche modo di sperimentare per la prima volta l’acclamazione della folla, cosa che però non gli dà alcun piacere, anzi lo mette in ansia, si sente ancora più solo.

La sua vita del resto è totalmente assorbita dal lavoro, dalle scene ripetute anche centinaia di volte, prima di arrivare alla clip perfetta. Perfezionista, austero sul lavoro, quasi indifferente al denaro e con un’unica porta verso il mondo esterno rappresentata dall’amico attore Douglas Fairbanks, che riesce di tanto in tanto a fargli assaggiare un briciolo di vita mondana.

Questo è anche il periodo in cui Chaplin comincia ad avere storie d’amore con attrici molto più giovani di lui, quasi volesse recuperare quella spensieratezza che non poté mai avere da ragazzo.

L’impegno bellico e la critica sociale

Intanto in Europa infuria già la Grande guerra e vengono mosse le prime critiche verso il Chaplin più controverso, quello che non faceva mistero delle sue idee politiche progressiste, ma che gli varranno l’appellativo di «bolscevico da salotto».

Altro sgarro imperdonabile, specialmente per i suoi connazionali, è il fatto che non volle tornare in Europa per arruolarsi. Eppure i suoi contributi economici per sostenere lo sforzo bellico e i civili martoriati dall’economia di guerra sono inconfutabili, ma allora li conoscevano in pochi.

Chaplin accetterà anche di produrre un film che farà distribuire gratuitamente, dove trasforma la dura vita della trincea in un nuovo palcoscenico per il suo vagabondo, facendogli vestire la divisa.

Ma Chaplin non era un rivoluzionario, non voleva sovvertire la società, bensì chiedeva un capitalismo più inclusivo e attento ai bisogni della gente. Questo lo notiamo soprattutto durante il periodo successivo alla grande crisi economica che travolse gli Stati Uniti, contagiando presto anche il resto del mondo.

Chaplin simpatizza per il New Deal del presidente Roosevelt e già da tempo mette in guardia l’opinione pubblica contro l’avvento dei nazionalismi. Ieri lo chiamavano bolscevico da salotto, oggi si preferisce dire «buonista» o «radical chic».

Chaplin creò un linguaggio globale paragonabile a quello dei film sui supereroi

«Difficile riassumere la sua produzione cinematografica in poche righe, possiamo però citare alcuni lungometraggi per spiegare meglio la ragione per cui oggi ci ricordiamo ancora di lui», il critico cinematografico Emanuele Rauco racconta a Open perché l’opera di Charlie Chaplin continua ad avere qualcosa da raccontare, sia per quanto riguarda la performance da attore, sia da regista.

Le due figure in Chaplin tendono spesso a fondersi. «Difficile distinguerle – conferma Rauco – questo vale per molti dei comici del cinema muto, la distinzione comincia a esserci dagli anni '20 in poi. Prima il performer era il regista, lui decideva cosa fare, come farlo, dove posizionare la macchina da presa e il montaggio».

«Quindi anche inizialmente Chaplin di fatto era già il regista. Poi col successo del Vagabondo avrà anche il potere contrattuale per decidere tutto, colonne sonore comprese, divenendo così uno dei primissimi grandi autori nella storia del cinema».

«Certo, si può sempre realizzare di meglio, probabilmente è già successo, ma Chaplin ha fatto allora qualcosa che oggi sarebbe impossibile: ha creato un linguaggio che tutti potessero comprendere a qualsiasi latitudine, in qualunque epoca; ed è qualcosa che oggi sarebbe impossibile ripetere».

«La cosa più vicina oggi a quel tipo di comunicazione globale sono forse i film sui supereroi, ma questi ultimi comunque non arrivano a tutti – c'è una fascia d'età che rimane comunque esclusa – con Chaplin invece no».

Un nuovo linguaggio cinematografico che anticipa il neorealismo

Il monello è una delle pellicole considerate autobiografiche del regista ed è anche un esempio della capacità di Chaplin di saper far ridere e piangere allo stesso tempo. «Certamente lo ha fatto conoscere davvero in tutto il mondo. Lì troviamo già quel linguaggio di cui parlavo: l'uso del patetico e della risata, la perfezione della messa in scena, ma anche la voglia di colpire».

«La capacità di toccare le corde dello spettatore arriva ai suoi punti più alti, mai nessuno aveva fatto altrettanto in modo così estremo e radicale. Per questo è stato il lungometraggio che lo ha fatto diventare forse la più grande superstar di tutti i tempi».

Realizzare un lungometraggio è una sfida importante per un comico – pensiamo anche a Luci della città – dove è molto difficile riuscire a intrattenere solo con scene comiche. «Nei corto e medio-metraggi era possibile fare un crescendo di gag, poi il finale commovente. Nel lungometraggio il gioco è più difficile. Chaplin sentiva il peso di una ambizione maggiore, quindi ha cercato di fare qualcosa di più rischioso e complesso da mettere in scena».

«Luci della città è quel film in cui la capacità di unire comico e tragico un po' "scavalla". Decise di fare un film in tutto e per tutto dalla struttura allo sviluppo dipico di un melodramma, dove però il fatto che il personaggio sia Charlot lo "infiltra" di comicità, questo lo rende ancora più sferzante, però proprio per questo ribaltamento credo sia uno dei suoi film che ha maggiormente retto il passare del tempo».

Questi risultati Chaplin li consegue anche grazie ad una continua ricerca delle scene perfette, facendole ripetere anche centinaia di volte, come nella realizzazione de La febbre dell'oro. Rauco ricorda come sono state realizzate le scene in cui i protagonisti si trovano costretti dalla fame a dover mangiare le proprie scarpe bollite.

«Anche qui abbiamo veramente il mix perfetto di una situazione dalla tragicità infinita, però messo sotto forma di gag». La scena delle scarpe, fatte di liquirizia, volle ripeterla almeno 400 volte, avendo pure dei problemi di "dissenteria".

«Chaplin fu uno dei primissimi "registi industriali" ad aver colto il senso artistico del cinema, quindi anche la potenza dell'autore. Quella ricerca di realismo, di esasperazione, di poter fare cose che ai registi commerciali americani non permettevano, spingendolo spesso all'estremo».

«In questo film vennero fatte anche delle scelte scenografiche e ambientali molto complesse per l'epoca. Chaplin anticipa inoltre il lavoro che faranno molti anni più tardi i registi neorealisti, come già con Il monello».

Le nuove sfide del cinema sonoro nell'epoca dei nazionalismi

Con Tempi moderni e Il grande dittatore abbiamo anche la satira politica e una analisi molto lucida di quelli che saranno i punti più distruttivi e tragici del regime nazista, ma si sente anche la differenza rispetto ai suoi film muti. Chaplin non vive molto bene il passaggio al sonoro.

«Sicuramente i suoi film muti – o quanto meno "non parlati" fino a Tempi moderni – hanno tutti retto meravigliosamente, quando arriva il sonoro un pochino il peso del tempo si sente. Il grande dittatore resta un capolavoro, ma visto a 70 anni di distanza il passare del tempo lo fa sentire».

«Tutti quelli della sua generazione vivono malissimo l'avvento del sonoro. I grandi autori, quelli che avevano a cuore la forma cinematografica, avevano capito che tutto il lavoro svolto sul piano visivo rischiava di venire messo da parte per concentrarsi sulla registrazione della colonna sonora». Chaplin infatti continua a fare sostanzialmente dei film muti. Anche dopo l'avvento del sonoro i suoi film sono prevalentemente "non parlati"».

Lui a un certo punto studia anche come sincronizzare la colonna sonora al ritmo delle scene. «Certo, nel momento in cui è proprio il compositore delle colonne sonore non ha di questi problemi. Poi a un certo punto si vede costretto a reinventarsi, come ne Il grande dittatore, con un film sostanzialmente parlato; però le sue gag sono tutte mute: quando è Charlot non dice mai una parola».

«Anche nell'interpretare "Hitler" tutte le sue parti sono, o non parlate, o quando parla non si capisce, usa un finto tedesco. Solo nel finale abbiamo un vero e proprio discorso, quella parte – un monologo meraviglioso – è comunque quella che oggi senti più invecchiata e fuori dal contesto, perché usa la parola in maniera veramente convenzionale».

Nel 1952 Chaplin si trovava in viaggio verso Londra per la prima di Luci della ribalta, quando venne raggiunto da una notifica in cui gli veniva annullato il permesso di rientrare negli Stati Uniti. Il gossip sulla sua vita privata e sulle sue idee politiche avevano ormai raggiunto il culmine.

Verrà riabilitato solo molti decenni più tardi e nel 1972 tornerà in America per ritirare il Premio Oscar alla carriera. Anche in questa occasione Chaplin riesce a far ridere e commuovere allo stesso tempo, ricevendo la più lunga ovazione nella storia del premio.

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