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Il reato di apologia del fascismo, cosa prevede e perché è di difficile applicazione

08 Maggio 2019 - 13:05 Redazione
Le leggi Scelba e Mancino puniscono l'esaltazione e la propaganda dei principi del fascismo. Capita a volte che la discrezionalità del giudice valuti come preminente la libera manifestazione del pensiero, principio sancito all'articolo 21 della Costituzione

«È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista». Recita cosi la legge Scelba che nel 1952 introduce il reato di apologia del fascismo nell’ordinamento italiano. Nata dalla necessità espressa in una una disposizione transitoria e finale della Costituzione e ritoccata con un successivo intervento del 1975. La legge non punisce solo la riorganizzazione del partito fascista ma anche tutti quei comportamenti che esaltano il fascismo.

L’articolo 4 della legge Scelba

La norma, all’articolo 4, sanziona infatti chiunque «promuova oppure organizzi sotto qualsiasi forma, la costituzione di un’associazione, di un movimento o di un gruppo avente le caratteristiche e perseguente le finalità di riorganizzazione del disciolto partito fascista». Per i trasgressori la pena prevista è da cinque a dodici anni. Inoltre, la stessa legge punisce chiunque «pubblicamente esalti esponenti, princìpi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche». E dunque anche la propaganda.

La legge Mancino

Oltre alla legge Scelba esiste poi un’altra legge che regola il delitto di apologia del fascismo. È la legge Mancino (del 1993) che punisce i reati di odio e discriminazione razziale. In particolare, secondo quanto recita l’articolo 2, è punito «chiunque, in pubbliche riunioni, compia manifestazioni esteriori od ostenti emblemi o simboli propri o usuali di organizzazioni, associazioni o movimenti aventi tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi».

Altaforte al Salone del libro, la denuncia delle istituzioni locali

Su questi presupposti la sindaca di Torino Chiara Appendino e il governatore della Regione Piemonte Sergio Chiamparino hanno denunciato Altaforte, la casa editrice di ispirazione fascista presente al Salone del libro di Torino, a capo della quale c’è Francesco Polacchi, dirigente di CasaPound e proprietario del marchio di abbigliamento Pivert.

Ed è proprio contro la sua condotta che Appendino e Chiamparino hanno presentato un esposto alla procura della Repubblica così che i magistrati possano valutare «se sussistono i presupposti per rilevare il reato di apologia di fascismo (l. 645 del 1952, legge Scelba) e la violazione di quanto disposto dalla legge Mancino 305 del 1993». Una decisione, quella della Regione e del Comune, assunta «nella convinzione che anche la forma più radicale dell’intolleranza vada contrastata con le armi della democrazia e dello stato di diritto».

Polacchi indagato

Frasi come «io sono fascista», «l’antifascismo è il vero male di questo Paese» e «Mussolini è il miglior statista italiano» non sono dunque passate inosservate e hanno dato alle istituzioni locali l’impulso per l’accertamento giuridico e la possibilità di inserirsi in un dibattito che da giorni scalda il Salone del libro di Torino e che ha fatto registrare le dimissioni del consulente e scrittore Christian Raimo e il ritirarsi dall’evento di nomi come quello del collettivo Wu Ming, del fumettista Zero Calcare e dello storico Carlo Ginzburg. E così, alla vigilia dell’inagurazione del Salone, la procura di Torino ha aperto un fascicolo per apologia del fascismo nei confronti di Francesco Polacchi.

Apologia del fascismo vs libera manifestazione del pensiero

La ragione per cui le due leggi che puniscono chi commette reato di apologia del fascismo (Scelba e Mancino) risultano di difficile e, a volte, controversa applicazione sono da attribuirsi al conflitto che sorge con il principio di libera manifestazione del pensiero sancito all’articolo 21 della Costituzione. «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione», recita l’articolo in questione. E proprio qui si pone il problema per il giudice chiamato a decidere sui casi specifici: proteggere un principio costituzionale o l’altro? Il pericolo è quello di incorrere in una scelta eccessivamente discrezionale.

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