La fotografa Ana Palacios: «Vi racconto l’Africa che non è mainstream». Immagini da un mondo ignorato

«Sono problemi invisibili, ma meritano di essere raccontati: questa è la mia prospettiva. Senza mai dimenticare di mostrare il contesto con il più assoluto rigore, la più profonda onestà e la più sincera etica che io possa offrire»

Alla domanda «qual è la tua visione dell’Africa», Ana Palacios non sa cosa rispondere: «È un continente molto variegato e complesso. Ci sono più di 50 Stati e ognuno ha le sue peculiarità e problematiche». Ma quando non trova le parole, usa la sua macchina fotografica e offre al mondo una visuale inedita su un lato del mondo ignorato. La fotografa Ana Palacios: «Vi racconto l'Africa che non è mainstream». Immagini da un mondo ignorato foto 14


Foto di Ana Palacios

La fotoreporter spagnola ha avuto tante vite: ha lavoratonell’industria cinematograficaa Hollywood, ha curato la comunicazione e il marketing per alcune società e poi ha riscoperto la libertà di raccontare storie da freelance.«È dura, diventi contabile di te stesso e devi programmare anche le spese più insignificanti. Ma non baratterei mai la verità e i miei valori quando vengo a conoscenza di una storia importante. Il nostro compito è far luce, a qualunque costo».


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Le sue foto sono state pubblicate sulle riviste di tutto il mondo, ma ogni volta Palacios deve contrattare per il prezzo e, a volte, il contenuto «perché non accetto modifiche, tagli, esclusioni di alcune foto. La realtà non va smussata». Ha deciso di regalare a Open qualche esempio dei suoi ultimi reportage:«Credo nei giovani e nei progetti che danno loro un’opportunità».

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Ana, qual è la tua visione dell’Africa?

«L’Africa è un continente da 1,216 miliardi di persone, con un incremento demografico altissimo. L’estensione è enorme. Non si può semplificare mai quando si parla di queste misure. Sento una responsabilità enorme in quanto giornalista e fotografa: spaccare lo stereotipo della storia unica africana che si studia nei Paesi occidentali».

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Però i tuoi occhi hanno visto molte cose sconosciute per chi non è mai stato in quei Paesi dimenticati dall’Occidente.

«L’Africa non è safari o carestie, guerra o povertà. L’Africa è molto più ricca di tutto questo: ci sono segnali di sviluppo, di investimenti. C’è una comunità alla base che si sta mobilitando per finirla con i governi corrotti. Lottano contro la spoliazione di risorse messa in atto dai Paesi più ricchi del mondo. I giovani stanno alzando la voce contro questo neocolonialismo».

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Ci sono delle problematiche che ti hanno toccata da vicino?

«I problemi che ho riscontrato maggiormente nei miei viaggi sono quei problemi invisibili, che mai troverete nella prima pagina di un giornale europeo. Non sono breaking news, non hanno stretti agganci con l’attualità, ma colpiscono milioni e milioni di persone. Allora ringrazio Open per lasciarmeli raccontare anche attraverso le mie fotografie. Parliamo del traffico di bambini, il cancro della pelle per gli albini, l’emarginazione delle comunità minoritarie, come quelladei pigmei in Burundi».

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Partiamo dal primo tema: raccontaci cosa significa essere albini in Africa.

«Per quanto riguarda il dramma degli albini, il mio focus è sul melanoma, non sulla stregoneria legata ai loro organi: neavete sicuramente sentito parlare, ma i veri problemi sono altri. Sicuramente il cancro della pelle ma anche la stigmatizzazione subita all’interno delle proprie famiglie a causa dell’ignoranza. Stiamo parlano di Paesi che hanno un basso indice di sviluppo educativo. Gli albini perseguitati per usare parti del loro corpo in riti di stregoneria sono un aspetto che incide, ma poco, su quella che è l’aspettativa media di vitadi queste persone in Tanzania: stiamo parlando di un’aspettativa che non supera i 30 anni di vita. Mentre le persone non albine hanno un’aspettativa di 51 anni. Parlo della Tanzania perché è il Paese con la più alta concentrazione di albini del mondo».

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E hai raccolto le tue foto nel libro Albino. La tua ultima fatica, invece, si chiama Bambini schiavi: la porta sul retro.

«Racconto iltema del traffico dei minori nell’Africa Occidentale, la zona nel mondo dove c’è la tratta di bambini più diffusa, io mi sono focalizzata non sulla vendita letteralmente dei piccoli, ma sulla loro riabilitazione. Stiamo parlando di bambini e bambine che sono venduti dai genitori a causa della povertà e comprati da famigliari o conoscenti che li portano in altre zone del Paese o in nazioni limitrofe. Questi bimbi sono obbligati a vendere popcorn, acqua, verduraper strada. Ma non frequentano le scuole, il loro diritto all’educazione è inesistente, non ricevono cure sanitarie e nemmeno affetto».

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Il traffico di esseri umani, spesso minorenni, interessa anche l’Europa. Penso alle giovani costrette dai loro trafficanti a prostituirsi anche sulle strade italiane.

«Non mi interessa la parte morbosa, come la tratta di bimbe nigeriane in Europa che poi vengono avviate alla prostituzione. Uno perché i numeri sono più bassi, due perché se ne parla nella cronaca locale delle nostre nazioni benestanti, tre perché questa forma di schiavitù, nonostante faccia meno clamore, è molto più connaturata nella tradizione di alcuni Paesi dell’Africa Occidentale ed è necessario un processo di educazione profondo. Mi tengo lontana dai sensazionalismo. È una pratica comune in questa zona del mondo, addirittura ben vista. Per varie ragioni: primo per la povertà, soprattutto nelle aree rurali, e il costume è mandarli a lavorare per i parenti nelle città o nelle piantagioni di cacao. Con l’obiettivo di far imparare loro un mestiere, i genitori non considerano nemmeno l’idea che a 10 anni un bambino deve pensare solo ad andare a scuola».

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Ci dai qualche indicazione geografica per collocare le zone che hai studiato (e fotografato)?

«Vengono soprattutto venduti nei Paesi più ricchi dell’area, come Gabon, Ghana e Nigeria. I Paesi dai quali partono sono soprattutto Niger, Burkina Faso, Benin, Togo. Il Camerun è un Paese di transito. Sono tutti dati in possesso dell’Unicef, collaboro a stretto contatto con loro. Ecco a me interessa questa cifra: sono 72 milioni i bambini vittima di schiavitù. O ancora, molte bambine togolesi finiscono per diventare serve nelle case benestanti in Nigeria e Gabon. Non hanno più un diritto fondamentale per quell’età: il diritto al sogno. La riabilitazione è meno vistosa, direi meno “sexy” per gli organi di stampa. Ma è importantissimo mostrare che esiste una via d’uscita. Ed è quella che dà il titolo al mio lavoro: La puerta de atrás. Quelle fotografie sono il riassunto di tre anni di lavoro in tre Paesi africani in cui le mie giornate si alternavano tra fotoreportage e volontariato».

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Cosa ti porta, ogni volta,in Africa?

«Sono problemi invisibili, ma meritano di essere raccontati: questa è la mia prospettiva. Senza mai dimenticare di mostrare il contesto con il più assoluto rigore, la più profonda onestà e la più sincera etica che io possa offrire. Poi la qualità visuale si declina per me in libri, reportage giornalistici, esposizioni in musei: ma è un aspetto secondario rispetto al racconto trasparente dei grandi problemi del mondo. Per esempio le malattie tropicali, come l’ulcera del Buruli: uccide migliaia di persone ma le case farmaceutiche non sono interessate nel sviluppare cure adeguate. Perché? Perché interessano persone che mai riusciranno a pagare delle medicine costose. Sono 17 malattie endemiche nell’area che mettono a repentaglio la vita di moltissime persone e non se ne parla. Mai».

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Come non si parla dei pigmei?

«Pigmei e altre tribù senza più terra perché gli viene espropriata. Ghettizzati dalla società che si è alleata con il mondo moderno.Più lo sviluppo avanza più queste comunità vengono spogliate dei propri territori e delle proprie tradizioni. Li hanno trasformati in persone senza uno scopo, senza un’appartenenza: così sta diventando diffusissimo il problema delle droghe e dell’alcol in queste tribù, come successe per i nativi americani. Sono davvero in pericolo di estinzione e nessuno ne parla sui mass media».

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In Italia, sulla stampa nazionale, spesso parliamo di Africa in correlazione agli affari che stanno facendo le imprese cinesi.

«C’è una penetrazione silenziosa impressionante dei cinesi in Africa. Con crediti ai governi locali, riescono a negoziare con molta più facilità rispetto alle aziende del cosiddetto Nord del mondo perché si pongono in una posizione paritaria: parlano dandosi del tu. Ma senza nascondere un tema fondamentale: non esistono ong o imprenditori cinesi che fanno questioni affinché si rispettino i diritti umani nei Paesi dove penetrano. L’interesse è solamente economico e più o meno il gioco è sempre lo stesso: i cinesi costruiscono infrastrutture nei Paesi africani sottosviluppati e in cambio ricevono risorse naturali molto preziose per una nazione da quasi un miliardo e mezzo di abitanti. Porti, strade, campi da calcio: stanno costruendo di tutto. E la popolazione africana generalmente apprezza molto il tipo di lavoro offerto dalle aziende cinesi. Da lavorare con strumenti obsoleti si trovano a manovrare macchinari più leggeri e, in generale, a svolgere mansioni meno faticose».

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Qual è il tuo giudizio a riguardo?

«Assolutamente, non voglio dare un giudizio di valore perché quello che ho visto in molti anni lì in Africa è che i locali sono contenti di questa collaborazione con i cinesi. A lungo termine vedremo cosa comporterà questa cooperazione, non voglio giocare prevedendo il futuro e quindi non posso dire se davvero miglioreranno le condizioni delle persone dove i cinesi stanno facendo investimenti o se si creerà una sudditanza malata nei confronti del dragone».

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