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Chi sono le attiviste transgender a cui New York dedica un monumento

31 Maggio 2019 - 06:40 Emma Bubola
Marsha P. Johnson e Sylvia Rivera erano nate donne con nomi da uomo, erano povere, con la pelle scura, e lottavano perché questo non fosse una condanna

Costruiranno due statue, al Greenwich Village, in onore di due donne che sono state, per la maggior parte della loro vita, senza tetto, vittime di abusi ed emarginate. Marsha P. Johnson e Sylvia Rivera sono state due icone del movimento transgender e la città di New York ha annunciato che dedicherà loro un monumento, uno dei primi al mondo in onore di personalità queer.

«Il movimento LGBTQ è sempre stato dipinto come bianco e maschio – ha affermato Chirlane McCray, moglie del sindaco Bill De Blasio – questo monumento va contro la tendenza di dipingere tutta la storia di bianco».

Marsha P. Johnson e Sylvia Rivera erano nate donne con nomi da uomo, erano povere, con la pelle scura e lottavano perché questo non fosse una condanna. Tutto ciò avveniva nella New York della fine degli anni ’60, mentre a Woodstock si celebrava l’amore libero.

Marsha P. Johnson

Il 28 giugno del 1969, la polizia di New York fa irruzione allo Stonewall Inn, noto locale gay, per effettuare una delle tipiche retate contro il «cross dressing», l’uso di capi di abbigliamento non conformi al proprio sesso biologico. Una delle persone coinvolte è Marsha P. Johnson, allora ventitreenne, originaria di Elizabeth nel New Jersey.

La giovane si ribella ai poliziotti che la trascinano via e la sua rivolta ai continui abusi e all’oppressione diventa contagiosa. Iniziano così quelli che diventeranno i moti di Stonewall, la genesi del movimento di liberazione LGBTQ americano. Un anno dopo, il 28 giugno del 1970, debutta di fronte allo Stonewall il primo gay pride della storia, chiamato Christopher Street Day in memoria della strada in cui si trovava il locale.

Credits: Netflix Marsha P. Johnson

Nel 1992, l’icona del movimento transgender americano viene trovata morta nel fiume Hudson, a New York. Gli inquirenti lo bollano come «suicidio», ma secondo gli amici e i conoscenti della vittima Johnson è stata assassinata. Al suo caso si applica quella che era la prassi dell’epoca per le numerose morti e sparizioni di donne transgender afroamericane: il dossier viene archiviato senza particolari indagini. Il mistero del decesso di Johnson rimane tutt’ora irrisolto.

Il documentario del 2017 di David France «La vita e morte di Marsha P. Johnson», nominato agli Oscar, ricostruisce la vicenda, cercando di risalire alle cause di questa morte inspiegata. France segue Victoria Cruz, un’attivista del Progetto anti-violenza della città di New York mentre ricompone i tasselli della sparizione della «Rosa Parks del movimento LGBTQ», interponendo immagini della sua ricerca a video e fotografie di archivio.

Sylvia Rivera

Sylvia Rivera era una drag queen, ispanica, lavoratrice del sesso e povera. Queste simultanee marginalità e la sua personalità magnetica, intransigente, rumorosa, facevano paura allo stesso movimento omosessuale. Nata con il nome di Ray Rivera nel Bronx nel 1951, abbandonata dal padre e orfana di madre, si ritrova in strada a 10 anni. Si inserisce nella comunità transgender senzatetto, tra clandestinità e prostituzione. Con Johnson, Rivera fonda STAR, associazione di soccorso ai ragazzi senza fissa dimora e i bambini transgender rimasti senza casa.

Sylvia Rivera

Negli anni 60, l’attivismo gay era rappresentato per la maggior parte da uomini borghesi bianchi cisgender omosessuali. La presenza di Rivera era scomoda. Nel 1973, durante la quarta manifestazione del Christopher Street Day, Rivera sale sul palco di fronte alla folla degli attivisti più «accettabili» e prende la parola sovrastando un coro di «Buuh».

«Sono stata in prigione, sono stata stuprata e picchiata molte volte, mi hanno rotto il naso, ho perso il lavoro, ho perso la mia casa per ottenere la liberazione, e voi mi trattate così, che cazzo di problemi avete?», chiede Rivera, per poi esclamare, in un grido straziante: «Rivoluzione, ora!». Dopo la manifestazione, Rivera ha un esaurimento, abbandona STAR e l’attivismo, continuando a vivere per strada lottando contro la dipendenza da stupefacenti.

Nonostante la loro posizione di estrema esclusione, Johnson e Rivera hanno svolto un ruolo fondamentale nel coinvolgimento delle persone transgender di origine immigrata nel movimento gay mainstream. Secondo il centro nazionale per l’uguaglianza transgender americana, le vite di queste persone sono però ancora caratterizzate da maltrattamenti, violenze diffuse e severe difficoltà economiche.

In Italia, secondo l’Arcigay, le violenze sono addirittura aumentate quest’anno. Il nostro Paese è al secondo posto in Europa, subito dietro la Turchia, per numero di omicidi di persone transgender: tra il 2008 e il 2018 le vittime sono state 37.

La stima è considerata riduttiva viste la difficoltà nell’identificazione di un omicidio transfobico. Johnson e Rivera sono state fondamentali nel fare in modo che la lettera T venisse inclusa nella sigla che identifica la comunità queer, ma fuori dal movimento LGBTQ, la loro battaglia non è ancora stata vinta.

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