Marino Sinibaldi: «Una statua per risarcire la sposa bambina di Montanelli. Al via un confronto pubblico»

Il giornalista, direttore di Radio 3 Rai, spiega perché è necessario adottare soluzioni che relativizzino il passato senza distruggerlo

«Si può almeno avere, accanto alla intoccabile statua di Montanelli, una statua per Destà, la ragazzina nera presa in leasing (cit.) e atrocemente violata?».


La richiesta è arrivata via Twitter da Marino Sinibaldi, che oltre a dirigere Radio 3 Rai, da più di 30 anni anni lavora attraverso festival, trasmissioni e libri per rendere la cultura uno strumento di coscienza civile. Con il suo tweet – che rimanda alla risposta di Montanelli a una lettrice che gli domanda del matrimonio con la schiava-bambina – Sinibaldi è entrato nel dibattito sulla statua milanese del giornalista, prendendosi le lodi di chi cerca maggiore complessità nelle risposte della politica e gli insulti di chi sostiene sia un errore mettere sullo stesso piano “schiavo e schiavista”.


Invece di rimuovere una statua, ne aggiungiamo un’altra?

«Una statua indica un modello per le persone che vi passano davanti ogni giorno. Non c’è dubbio che un uomo che commette azioni riprovevoli nei confronti di una bambina non possa esserlo, ma è anche vero che in una società pluralista come la nostra colui che è modello per qualcuno, diventa facilmente nemico per un altro. Finora ci siamo mossi su una logica binaria: celebrare o distruggere il simbolo. Ma la vera qualità del nostro tempo è l’inclusività, insieme al relativismo, allora io dico: troviamo un modo per onorare le vittime. E partiamo proprio da questa giovane sposa, che probabilmente non si chiamava neanche Destà. Pare che questo nome fosse il diminutivo di Podestà, come a dire “cosa mia”. Ha diritto a un risarcimento».

Perché l’abbattimento della statua non è la soluzione?

«Le mie statue preferite si trovano a pochi metri l’una dall’altra a Trastevere: Trilussa e Giuseppe Gioachino Belli, entrambi da disprezzare per la condotta umana. A furia di indagare le biografie dei monumenti, temo che pochi si salverebbero dalla furia iconoclasta. Che poi, a ben guardare, gli iconoclasti sono sempre “gli altri”: nel Trionfo della religione cristiana vengono distrutti gli idoli pagani ma l’immagine non desta irritazione o sdegno, mentre se i talebani fanno a pezzi i Buddha di Bamiyan, quella distruzione crea sgomento. Ognuno giudica all’interno del proprio contesto culturale, ma allora dove tiriamo la linea? Perché gli idoli pagani possono essere distrutti e i Buddha di Bamiyan no? È una discussione faticosa e fastidiosa perché mette in discussione tutti i pilastri della nostra identità, ma forse è arrivato il momento di farla».

Cominci lei.

«Si ricorda quando è stata buttata giù la statua di Saddam Hussein? Io quel giorno ero entusiasta, ho celebrato l’evento in trasmissione. Dopo un po’ abbiamo scoperto che quello che sembrava un atto di liberazione era un gesto più equivoco. Chi arriva dopo distrugge sempre – i libri abbiamo cominciato a salvarli solo grazie alla riproducibilità. Le pulsioni sono comprensibili, ma così la storia rischia di essere riscritta senza un ragionamento. La mia utopia è quella di arrestare il processo della furia del vincitore che vuole distruggere la memoria dello sconfitto».

In realtà in Italia i simboli del passato che rappresentano modelli di fascismo, oppressione, violenza sono intatti.

«Alla nostra storia non appartiene la damnatio memoriae tipica di altri Paesi, come dimostra la sopravvivenza di un certo numero di opere fasciste, che oggi andrebbero contestualizzate. Ad esempio, mi piacerebbe vedere sotto l’obelisco del Foro Italico una targa dedicata a Giacomo Matteotti. In Spagna hanno rinominato tutte le vie intitolate ai generali golpisti…
Io suggerisco soluzioni che relativizzano il passato senza distruggerlo. Penso a quella adottata a Bolzano all’ex Casa del Fascio: sul fregio di Piffrader è stata apposta una scritta illuminata con una citazione della filosofa Hannah Arendt in tre lingue – Nessuno ha il diritto di obbedire -, contrapposta al Credere, obbedire, o combattere presente sul bassorilievo. Ci hanno messo anni per arrivare a questa soluzione, ma alla fine ci sono riusciti».

Sono molti i personaggi la cui memoria non è un patrimonio condiviso. Perché il dibattito è esploso intorno alla figura di Indro Montanelli?

«Perché è una figura complessa: è stato fascista e antifascista, liberista e ambientalista, berlusconiano e antiberlusconiano. Da sempre è un personaggio molto urticante, e la sua memoria è ancora vicina. Tuttavia il problema di fondo è che non facciamo i conti con la nostra storia e quindi ci troviamo spiazzati e disarmati davanti a una statua».

C’è chi fa notare che quella statua sia anche un paradigma esemplare del maschilismo sui cui si fonda la storia e la cultura italiana.

«È così, ed è per questo che sarebbe bene se avviassimo un confronto pubblico che tenga dentro tutto: la violenza, il colonialismo, lo stile di scrittura, la sincerità che arriva fino alla spudoratezza e alla rivendicazione. Qui non stiamo frugando nella vita privata di un uomo ma ci muoviamo su dichiarazioni pubbliche: la gestione della vicenda da parte di Montanelli è per i suoi ammiratori una prova di verità, e per i suoi detrattori la prova della sua scarsa tenuta morale.
Possiamo cogliere l’occasione per fare una discussione seria sui simboli e invitare la comunità a riconoscersi su valori ed esempi comuni: oggi è diventato molto complesso perché non c’è un riconoscimento condiviso. Ma potremmo ripartire dalle vittime della Storia».

Nella foto: il murales dello street artist Ozmo dedicato alla sposa-bambina di Montanelli

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