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Quanto è lontana l’eutanasia? Il 27 luglio potrebbe aprirsi un nuovo capitolo. Dal Perù la storia di Ana Estrada

23 Luglio 2020 - 14:59 Felice Florio
Mentre in Italia il tema sul fine vita torna al centro del dibattito a causa del processo in cui sono imputati Cappato e Welby, dall'altra parte dell'Oceano il caso Estrada smuove le coscienze sudamericane: la psicologa di 43 anni soffre di polimiosite, una malattia irreversibile, e chiede di far terminare le sue sofferenze

I lavori sono fermi. Del suicidio assistito nel parlamento non se ne parla, nonostante la Corte costituzionale abbia invitato i legislatori a riempire il vuoto normativo quasi un anno fa. Lunedì 27 luglio però, la magistratura potrebbe tracciare un ulteriore pezzo di strada verso la regolamentazione del fine vita in Italia. Mentre la politica dà le spalle alla questione, i giudici del tribunale di Massa (Toscana) dovranno emanare una sentenza nel processo che vede coinvolti Cappato e Mina Welby, imputati per l’assistenza al suicidio a Davide Trentini.

I membri dell’associazione Luca Coscioni rischiano fino a 12 anni di carcere. Se la Corte costituzionale ha determinato che, in Italia, è possibile assistere al suicidio una persona che è totalmente dipendente da macchinari, nel caso di Trentini non c’era questa condizione.

Il requisito mancante

Trentini era malato di sclerosi multipla dal 1993. Aveva 53 anni quando è morto in una clinica svizzera, accompagnato da Welby. Il giorno successivo, lei e Cappato si sono autodenunciati alla stazione dei carabinieri di Massa. Dei quattro requisiti necessari stabiliti dalla Consulta per rendere legale l’assistenza alla morte, Trentini ne aveva solo tre: patologia irreversibile, fonte di sofferenze intollerabili e capacità di intendere e volere.

La quarta condizione, ovvero l’essere tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale, non era presente. I giudici, lunedì, potrebbero stabilire che la dipendenza da un macchinario non è più una condizione necessaria.

Dall’Italia al Perù

Se nel nostro Paese potrebbe arrivare in sede processuale un avanzamento sul tema del fine vita, con una possibilità in più per quei malati gravi e irreversibili di ricorrere al suicidio assistito, all’estero questo diritto civile non è sempre riconosciuto. Se in Svizzera e nei Paesi Bassi la gestione del fine vita è ampiamente normata, dall’altro lato dell’Oceano Atlantico esistono Stati in cui la questione è ancora a uno stadio primordiale.

In Perù, ad esempio, ancora oggi non è permessa l’interruzione delle terapie, il suicidio medicalmente assistito e nemmeno l’eutanasia. Ed è in questo clima che Ana Estrada, quattro anni fa, ha iniziato la sua battaglia pubblica per cambiare la legge.

Il video-appello di Ana Estrada

La psicologa peruviana chiede che le venga riconosciuto legalmente il diritto di morire. Si è rivolta a organizzazioni estere, tra cui l’associazione Luca Coscioni, per dare alla sua battaglia un respiro internazionale. Il suo caso, tra l’altro, è molto simile alla storia di Piergiorgio Welby. Ana Estrada, oggi, ha 43 anni, di cui 31 vissuti con la polimiosite, una malattia progressiva e degenerativa che porta alla paralisi di quasi tutti i muscoli.

«Finchè non mi sarà riconosciuta la libertà, continuerò a vivere in un corpo che deteriora ogni minuto e che mi vincolerà al mio letto, collegata 24 ore su 24 al respiratore artificale», dice nel video-appello, pubblicato da Open in esclusiva per l’Italia.

Il simbolo sudamericano della lotta per la libertà di scelta

Estrada, tramite la Defensoría del Pueblo, ha presentato un ricorso alla Corte costituzionale del Perù. Nonostante le condizioni di salute peggiorino giorno dopo giorno, la psicologa, dal letto dell’ospedale, continua a lottare affinché le venga riconosciuto il diritto a «una morte dignitosa». È diventata il simbolo sudamericano della lotta per la libertà di scelta per il proprio fine vita.

«Inizieranno le ulcere cutanee, piaghe sempre più grandi e profonde fino all’osso, ma questo sarà solo l’inizio di molte infezioni. Seguiranno cure sempre più invasive e non morirò. Questo inferno sarà eterno e la mia mente sarà sempre lucida, vivendo ogni singolo dolore, su un letto di ospedale, con la speranza di morire».

Cappato: «Verrà il giorno in cui sarà riconosciuto il diritto a porre fine alla sofferenza»

«Credo non ci sia gesto d’amore più grande di aiutare una persona cara ad ottenere la morte, per porre fine alle sue sofferenze», conclude Estrada. Ha promesso sostegno alla sua battaglia Cappato, tesoriere dell’associazione Luca Coscioni: «Credo che verrà il giorno in cui il diritto a non essere sottoposto a condizioni di sofferenza insopportabile contro la propria volontà sarà riconosciuto a livello internazionale, quanto lo è già il diritto alla salute. Prima di quel giorno, la possibilità per ciascuna donna e uomo di esercitare la propria libertà dipende dalla volontà dello Stato nel quale ha avuto la ventura di nascere».

«La classe politica peruviana si assuma la responsabilità di una decisione»

Cappato e l’associazione di cui è membro si dicono pronte a supportare Estrada anche davanti alle giurisdizioni internazionali. «Il caso può dunque determinare una sorte tanto diversa tra un cittadino belga e olandese, da un parte, e un cittadino peruviano o italiano, dall’altra. In Italia, il coraggio di cittadini malati che hanno reso pubblica la propria urgenza ha però già contribuito a cambiare di molto la legislazione. Mi auguro con tutto il cuore che il coraggio e la perseveranza di Ana possa muovere i cuori e le menti dei cittadini del Perù e dei loro rappresentanti, affinché quantomeno un dibattito sia al più presto aperto in quel Paese e la classe politica si assuma la responsabilità di una decisione».

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