Un anno di Coronavirus nelle carceri: perché la seconda ondata ha portato più contagi della prima

di Giada Ferraglioni

Nonostante le accortezze e i mesi di assestamento, nelle carceri italiane i casi sono aumentati. Alessio Scandura dell’Associazione Antigone ha spiegato a Open il perché

Rsa e carceri. Sono questi i luoghi dove residenti e detenuti hanno subito più di tutti le conseguenze dell’isolamento imposto dal Coronavirus. Da una parte la strage nelle strutture per anziani, che ha attraversato la prima e la seconda ondata e che ha scritto una delle pagine più buie della nostra storia. Dall’altra la situazione già di per sé critica dei centri di detenzione, aggravatasi ulteriormente durante la pandemia. Vite, quelle dei carcerati, che sono passate in sordina durante nove lunghi mesi di emergenza.


Erano i primi giorni di marzo quando nelle strutture penitenziare di tutta Italia scoppiarono una serie di rivolte che portarono alla morte di 13 detenuti. La decisione di interrompere le visite per evitare l’ingresso del Sars-Cov-2 nelle strutture già sovraffollate aveva fatto alzare un moto di rabbia e sconforto, colmato poi in parte dall’organizzazione nelle settimane successive. Quando le acque si erano calmate, l’attenzione mediatica su di loro era pian piano andata a morire. Ma è stato proprio in questi mesi che i vecchi problemi si sono aggravati, nonostante gli sforzi di tutto il sistema.


«Questo è quello che preoccupa di più», spiega a Open Alessio Scandura, coordinatore dell’Osservatorio di Antigone sulle condizione di detenzione. Da settembre l’associazione aveva ripreso le visite negli istituti, ma con la nuova ondata si sono fermati di nuovo per evitare di fare da veicoli di trasmissione. «Nonostante si abbia un sistema carceri più organizzato, la situazione continua a peggiorare».

Nel periodo tra febbraio e agosto, i dati ufficiali parlano di 568 persone contagiate, 4 delle quali decedute (2 agenti e 2 detenuti), 557 guariti (314 operatori e 243 detenuti) e 7 positivi. Secondo quanto emerso nelle ultime settimane dai dati diffusi dal Dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap), rispetto alla prima fase della pandemia i positivi sono triplicati. Al 7 dicembre (senza contare le variabili, ma solo gli aggregati), i detenuti risultati positivi erano in tutto 958, gli agenti 810 e gli addetti del personale amministrativo 72.

La vita di tutti i giorni

ANSA/ FRANCO CAUTILLO | Rivolta nel carcere di Foggia, 9 marzo 2020

Eppure, come racconta Scandura, la vita nelle carceri non è ancora tornata alla normalità. Tutte le attività sono sospese, dal volontariato alla formazione professionale. Anche la scuola sta avendo difficoltà, seppur in maniera diversa da struttura struttura, perché «le carceri sono una realtà molto varia». La didattica a distanza è stata una debacle generale, a parte qualche esempio virtuoso. «Nella gran parte degli istituti penitenziari la Dad si è interrotta a febbraio», dice. «Poi si è provato a far ripartire la scuola in presenza a settembre, ma le lezioni sono state incostanti».

L’unica cosa rimasta in piedi sono i colloqui con i familiari – l’attività che più di tutte ha concentrato le energie e gli strumenti a disposizione. Ma anche qui, le grandi sale con i tavolini adibite solitamente agli incontri si sono ridotte a stanze divise da un muro di plastica. «Le visite sono diminuite di molto perché non si possono fare troppi colloqui in contemporanea», spiega Scandura. «E anche i familiari spesso faticano a muoversi, sia a causa delle limitazioni nazionali sia per la paura di contagiarsi uscendo di casa».

Durante la prima ondata il panico si toccava con mano. I familiari dei detenuti chiamavano in lacrime i volontari di Antigone, dicendo di non sapere come stessero i loro cari oppure parlando di presunte infezioni da Covid-19 nelle celle. «I primi mesi per noi sono stati pesantissimi», dice Scandura. «Ci sono state le rivolte, i trasferimenti di massa, i detenuti che non si sapeva dove fossero stati mandati. Ora sono tutti più calmi ma le preoccupazioni non sono finite».

Da dove viene il virus

Ansa/Matteo Corner | Rivolte a San Vittore, 9 marzo 2020

Tutto sommato, dice Scandura, le disposizioni sono molto rigide e c’è organizzazione. Ma il virus, proprio come per gli ospedali e per le Rsa, entra dagli spiragli. E proprio come per la prima ondata, anche stavolta si cammina di pari passo (e un po’ peggio) con il resto della popolazione. «Il problema è che a portare il Covid-19 è il personale che nelle carceri ci lavora», spiega. «Queste persone hanno giustamente una vita fuori, vedono i familiari, prendono i mezzi di trasporto. Non si può avere il rischio 0. Nei momenti più duri della primavera ho visto alcuni di loro dormire in carcere per evitare di essere vettori di focolai. Ma insomma, non lo si può pretendere a lungo».

Il sovraffollamento è nemico del distanziamento

Ansa/Matteo Corner | Rivolta nel carcere di San Vittore, 9 marzo 2020

Tutto questo diventa un problema soprattutto per la mancanza di spazio. Secondo i dati diffusi dal ministro Alfonso Bonafede, sarebbero 54.132 le persone detenute nelle 189 strutture presenti sul territorio italiano (quasi 700 in meno di novembre). In tutto, il numero disponibile di posti letto è di 50.568: il livello di affollamento, dice il Ministero, è del 105,5%. Un numero di per sé già elevatissimo, che però non prende in considerazione un’altra questione, sollevata invece da Rita Bernardini, storica leader dei Radicali, che sta portando avanti uno sciopero della fame contro il sovraffollamento. Di questi 50.568 posti, circa 4 mila non sarebbero agibili. Dunque, la percentuale di sovraffollamento sale al 115%.

«È una realtà strana quella delle 189 carceri», ha detto Bernardini all’Adnkronos. «Alcune sono quasi semivuote, con meno detenuti dei posti disponibili. Ma almeno 115 sono sovraffollate. A Taranto su 100 posti ci sono 193 detenuti, a Lauro, dove le donne stanno con i loro bambini, su 27 posti ci sono 7 donne. A Sciacca su 72 posti ci sono 45 detenuti, a Regina Coeli, un carcere vecchissimo, su 606 posti disponibili abbiamo 964 detenuti».

Ma riorganizzare la distribuzione non basta. Gli spostamenti li hanno già fatti, spiega Scandura, e in questi mesi è stato messo in atto un rigido sistema di quarantene per i nuovi arrivati che tiene sotto controllo i flussi. Ogni mattina i direttori dei penitenziari chiamano i provveditorati regionali per dichiarare quante stanze di isolamento hanno a disposizione. Ma i positivi, nonostante questo, restano tanti. «Quel che funzionava nel primo lockdown era il ricorso alla detenzione alternativa», spiega Scandura. «I pm propendevano per gli arresti domiciliari quando possibile, come richiesto anche dal procuratore capo della Cassazione. Ora non mi pare che ci sia lo stesso slancio».

I detenuti dovrebbero essere considerati fasce a rischio per il vaccino?

Date le difficoltà di gestione dei contagi e lo spazio spesso non adeguato al distanziamento minimo, ci si sta iniziando a chiedere se non sia buona cosa inserire i detenuti tra i primi destinatari del vaccino. «Come Antigone posso dirti che saremmo d’accordo nel farlo», dice Scandura. Alla fine, se entrassero solo gli agenti penitenziari (vaccinati) sarebbe facile tenere tutto sotto controllo, ma ci sono anche i volontari e tutto il personale che gira nelle strutture a metterli a rischio. «Ma è vero anche – sottolinea – che non esiste “il detenuto tipo”, ma tante diverse singolarità. C’è il giovane in buona salute, l’anziano, la persona di mezza età con la salute compromessa. Sarebbe molto, molto difficile organizzarsi».

Immagine di copertina: ANSA / CIRO FUSCO

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