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Monoclonali, le ore di terapia vissute con i pazienti Covid: «Siamo tutti a rischio, fidiamoci dei medici» – Il video

02 Maggio 2021 - 16:00 Giada Giorgi
Open ha seguito passo dopo passo le fasi del trattamento con anticorpi all'interno dell'ambulatorio ospedaliero dello "Spaziani" di Frosinone. La cura funziona ma l'Italia è ancora in ritardo

Per ogni paziente Covid curato con gli anticorpi monoclonali, c’è un posto letto libero in più negli ospedali. Tra poco più di due mesi la terapia sperimentale contro il virus potrebbe essere somministrata direttamente a casa con una semplice iniezione intramuscolo. Per ora, i monoclonali vengono utilizzati negli ambulatori ospedalieri con l’obiettivo di fermare un’infezione che già è riuscita a insediarsi nell’organismo ma che, grazie ai farmaci, non provocherà i danni gravi che finora abbiamo conosciuto.

La base di ogni terapia sperimentale è la fiducia nella scienza e nei dati, e quelli sui monoclonali non smettono di convincere i medici sulla reale efficacia della soluzione. Open è entrato, insieme ai pazienti affetti da Covid, in uno degli ambulatori ospedalieri che da diverse settimane è impegnato nella somministrazione degli anticorpi monoclonali. Le immagini arrivano dall’Ospedale “Fabrizio Spaziani” di Frosinone, tra le strutture sanitarie che hanno deciso di mettere in campo risorse ed energie per una delle più accreditate frontiere della lotta al Covid.

«Dei 30 pazienti finora curati, 22 si sono negativizzati precocemente, gli altri aspettano il risultato del tampone» racconta la dottoressa Rosalba Cipriani, responsabile della somministrazione di monoclonali insieme a una équipe medica e infermieristica forgiata da mesi di lotta al Covid. «È bene tenere sempre a mente che la medicina non è infallibile e che nessuna terapia è efficace nel 100% dei casi, ma questa dei monoclonali è una frontiera di cui vale la pena mettersi al servizio».

Obesità e cardiopatia sono le principali patologie presenti nei pazienti malati di Covid che Open ha incontrato. Un’ora di terapia, e poi altrettanto tempo da attendere sotto osservazione clinica. Una procedura semplice quanto decisiva soprattutto nei primi giorni di infezione. In quei momenti in cui antibiotici, cortisone ed eparina non farebbero che peggiorare il quadro clinico e impedire l’efficacia di un’eventuale terapia con anticorpi.

Quelle dosi che restano inutilizzate

Toscana, Lazio, Liguria sono alcune delle Regioni più virtuose in quanto a somministrazioni di anticorpi monoclonali. Ma non è abbastanza. I dati di aprile fotografano un utilizzo limitato dei farmaci da parte delle sanità locali: si parla di una percentuale inferiore al 5%, con circa 38 mila dosi acquistate che rimangono nei frigoriferi. «La gente mi chiede di poterle avere pensando che nella propria Regione non ce ne siano, ma non è cosi perché tutte le Regioni ne hanno a disposizione. Se non sono state usate vuol dire che non sono stati creati dei percorsi adeguati», denunciava pochi giorni fa il professor Bassetti dell’Ospedale di Genova.

Sulla stessa lunghezza d’onda la dottoressa Katia Casinelli, co-direttrice del laboratorio di terapia monoclonale dello Spaziani. «Ci siamo dovuti fermare per 5 giorni consecutivi perché non ci arrivavano chiamate dai medici di base. Stiamo facendo formazione ma la rete territoriale, anche in questo caso, deve darci una mano per far sì che le cure possano intercettare i pazienti che ne hanno bisogno».

Il nuovo monoclonale in arrivo

Intanto la ricerca va avanti anche e soprattutto per essere in grado di fronteggiare le varianti. La soluzione che si starebbe mostrando efficace prevede l’associazione di diversi anticorpi all’interno della stessa infusione, ottenendo la riduzione dei sintomi anche delle infezioni riconducibili a mutazioni di Sars-Cov-2. L’ultima frontiera, a questo proposito, è quella di cui parla la rivista scientifica Nature, frutto della ricerca condotta da istituti europei, fra i quali anche il Policlinico San Matteo di Pavia. 

Si tratta di un nuovo anticorpo, CoV-X2, descritto dai ricercatori come “bispecifico”, ovvero capace di riconoscere contemporaneamente due diversi antigeni (molecole) del virus. A differenza degli anticorpi finora utilizzati che riconoscono un singolo antigene, la doppia azione di CoV-X2 ridurrebbe ulteriormente il ventaglio di varianti più infettive, garantendo un’efficacia molto elevata. 

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