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Accordo di Parigi, neutralità carbonica e rischio ‘gilet gialli’: i nodi non risolti dell’accordo G20 sul clima

24 Luglio 2021 - 08:52 Federico Bosco
L’accordo apre la strada alla conferenza sul clima delle Nazioni Unite Cop26, che si svolgerà a novembre a Glasgow. In quell’occasione si proverà ancora una volta ad appianare le divergenze tra i Paesi

Il vertice del G20 sull’Ambiente, Clima e Energia di Napoli si è concluso con l’approvazione di un comunicato congiunto, frutto di settimane di trattative. Il documento si basa su tre macro aree: biodiversità, uso efficiente delle risorse ed economia circolare, finanza sostenibile. Il comunicato si aggiunge a quello di ieri sull’ambiente, l’argomento della prima giornata. Su due punti però non si si è trovato l’accordo, e si tratta di punti fondamentali: rimanere sotto il target di 1,5 gradi di riscaldamento globale nel 2030 ed eliminare il carbone dalla produzione energetica nel 2025. La discussione è rimandata al G20 dei capi di stato e di governo.

Cingolani: «Sarei stato più ambizioso»

«Stati Uniti, Europa, Giappone e Canada sono favorevoli, ma alcuni paesi fra i quali Cina, India e Russia, hanno detto che non se la sentono di dare questa accelerazione, anche se vogliono rimanere nei limiti dell’Accordo di Parigi», ha detto il ministro della Transizione ecologica italiano Roberto Cingolani. «Sarei stato più ambizioso» ha detto ancora Cingolani in conferenza stampa, «ma penso che possiamo essere assolutamente soddisfatti, non avevamo tutto questo ottimismo, sembravano esserci barriere più alte». L’accordo apre la strada alla conferenza sul clima delle Nazioni Unite Cop26 che si svolgerà a Glasgow, a novembre, organizzata congiuntamente da Regno Unito e Italia.

Le divergenze tra le più grandi economie del mondo

Il fronte delle economie più ricche del pianeta è spaccato a metà, con due terreni di scontro principali. Uno è il dissidio sugli obiettivi fissati dall’accordo di Parigi del 2015 e le conclusioni fissate dal Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC), che da un lato vede i paesi del G7 spingere per il rispetto dei target dell’accordo di Parigi, e dall’altra un gruppo di paesi del G20 che include Cina, Russia, India e Arabia Saudita, che contesta le evidenze scientifiche avanzate dall’IPCC e non ha intenzione di adeguarsi ai target parigini. 

Il secondo braccio di ferro è sull’obiettivo comune della neutralità carbonica entro il 2050. In questo caso il blocco di Cina, economie emergenti e paesi petroliferi premono per obiettivi più generici, come il raggiungimento di emissioni bilanciate entro la seconda metà del secolo in corso. La divisione quindi è tra USA, Regno Unito e paesi dell’Unione europea che sono ricchi di capitali e tecnologie, e vorrebbero accelerare sulla decarbonizzazione e sul passaggio alle fonti rinnovabili per contenere il riscaldamento globale, mentre gli altri paesi del G20 frenano le ambizioni di europei e americani. 

Cina e India non possono rinunciare alle fonti fossili per alimentare la loro crescita, mentre Russia e Arabia Saudita basano le loro economie sugli idrocarburi. A fare la differenza per trovare l’accordo sul comunicato finale è stato il convincimento della delegazione cinese, mentre l’opposizione più dura al testo condiviso era venuta dall’India. Il supporto di Pechino al documento finale ha permesso di superare le resistenze indiane, e arrivare all’accordo parziale.

Per USA e Europa la lotta al cambiamento climatico è il principale dossier internazionale in cui la cooperazione con la Cina è irrinunciabile. Prima del vertice l’inviato per il clima USA John Kerry ha lanciato un appello esplicito a Pechino affinché acceleri i suoi sforzi sul «più grande test del nostro tempo». Il presidente cinese Xi Jinping ha dichiarato che la Cina raggiungerà il picco di emissioni di anidride carbonica entro il 2030 e la neutralità climatica nel 2060. «Troppo poco e troppo tardi», ha detto Kerry. 

La transizione ecologica non è un pranzo di gala

Tuttavia, anche per i paesi più ricchi e avanzati uscire dalle fonti fossili non è un semplice: per dotarsi di energie rinnovabili a sufficienza ci vogliono tempo e capitali, e una decarbonizzazione troppo veloce rischia di danneggiare le industrie nazionali. Cingolani ne ha parlato, citando come un esempio dei possibili «danni collaterali» della decarbonizzazione le proteste dei gilet gialli iniziate nel novembre 2018 in Francia dopo che una tassa sui carburanti, imposta per spingere la gente ad andare meno in auto, risultava come un balzello insostenibile per gli abitanti dell’estesa provincia francese che non possono fare a meno di usare l’auto privata, né permettersi di comprare un’auto elettrica. 

Inoltre, c’è il problema del dumping ecologico, anch’esso citato da Cingolani in più interventi del vertice. Qui la questione diventa strategica e chiama in causa il commercio globale. Per esempio, se i paesi più ricchi si impegnano a produrre acciaio con tecnologie pulite, rischiano di subire la concorrenza dell’acciaio a buon mercato prodotto da paesi che non rispettano standard di sostenibilità. Alcuni degli Stati membri dell’Ue sono tra i migliori nella decarbonizzazione delle proprie economie, ma se non introducono barriere rischiano di subire la concorrenza al ribasso dall’estero, con il risultato di ridurre la propria quota di emissioni ma trovandosi svantaggiati. 

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