Axel Fox, la ragazza di Napoli che ha sviluppato da sola un videogioco su Freud: «Ho iniziato senza sapere nulla di codice» – L’intervista

All’anagrafe si chiama Fortuna Imperatore, ha 30 anni e dopo essersi laureata in psicologia ha cominciato a programmare un videogioco sul padre della psicanalisi

«Borioso, perverso e maligno, si prende gioco della crème della società viennese propinando teorie astruse e demoniache». La presentazione di Sigmund Freud che viene fatta sul Wiener Geier non è certo tra le più calde e docili che si siano lette sull’uomo che ha scritto le basi della psicanalisi. Eppure è da qui che si parte per entrare nella storia di Freud’s Bones, il videogioco pensato e programmato da Fortuna Imperatore, meglio nota negli ambienti di gaming come Axel Fox. 30 anni, napoletana, prima di essere una programmatrice di videogiochi, Fortuna ha studiato psicologia all’Università Federico II e ha lavorato per otto anni in un’impresa di pulizie. Poi la scelta di buttarsi in un settore che in Italia, dal lato della produzione, sta ancora faticando a fare i primi passi.


Creare un videogioco da zero non è semplice. Soprattutto se sei da solo, non conosci una riga di codice e non puoi contare sui finanziamenti di qualche casa di produzione. Tra Kickstarter, concorsi finanziati da Redbull e una discreta attenzione dei media Fortuna è riuscita a mettere insieme un titolo che il 25 maggio è stato pubblicato su Steam, una delle piattaforme di distribuzione più importanti nel panorama gaming. Per essere chiari anche con chi è digiuno di videogiochi, Freud’s Bones è un’avventura punta e clicca: per avanzare nel gioco bisogna scegliere come rispondere a delle domande e risolvere dei problemi interagendo con gli oggetti sullo schermo. Tutto per cominciare un cammino di analisi dentro la psiche di Freud e dei suoi pazienti.


Ti ricordi come è stato il giorno in cui hai pubblicato Freud’s Bones?

«È stato tutto molto veloce. Ho dovuto aspettare le cinque del pomeriggio per poterlo lanciare, avevo bisogno di un orario che andasse bene anche per gli Stati Uniti. In quelle ore c’erano tante persone che mi hanno scritto che non vedevano l’ora di iniziare a giocare. Ancora oggi è difficile da metabolizzare».

Qual è il commento che ti ha reso più orgogliosa?

«Me ne ricordo uno che faceva riferimento a quanto fosse intenso. Per tanti utenti è stato davvero sorprendente. È un gioco che fa emozionare, vengono trattate tematiche esistenziali molto profonde».

Torniamo alle origini del gioco. Come mai ti sei imbarcata in questa impresa?

«Ero molto stanca di vivere in un ambiente poco stimolate e di non avere videogiochi che parlassero di psicanalisi. Ho voluto provare questa strada anche se costruire un videogioco senza conoscere le basi della programmazione è davvero complesso. Ma non importa. Volevo arrivare a una comunity di persone vicine a me».

Prima di lavorare a questo progetto cosa facevi?

«Ho lavorato per otto anni e mezzo in un’impresa di pulizie. Nel frattempo studiavo psicologia all’università e poi ho fatto un master in antropologia culturale. Dopo questo percorso di studi però non volevo fare la terapeuta, non mi sentivo tanto in questo ruolo. Ho voluto cambiare i piani e cercare un modo di sfruttare la mia laurea che non fosse già battuto, anche se non sapevo una riga di codice».

C’è un momento in cui hai pensato di abbandonare il progetto?

«Mai. Nel 2020 ho cominciato la campagna su Kickstarter e quindi ho lavorato a questo gioco per due anni. Ho concentrato tutti i miei sforzi su questo progetto: per me era improponibile lasciare perdere tutto».

Quando ti sei accorta che il tuo gioco stava prendendo forma?

«All’inizio del progetto avevo in mano solo immagini grezze. Avevo cominciato a parlarne sui social e qualcuno aveva rintracciato questo tentativo. Sono uscite le prime bozze e lì ho capito di avere del potenziale. In quel momento ho iniziato a parlare ad un pubblico più vasto: mi sono accorta che quel progetto si poteva trasformare in un’avventura in grado di arrivare molte più persone».

Quanti soldi sono stati necessari per svilupparlo?

«Per fare tutto ci sono voluti circa 15 mila euro. Ma nel settore è pochissimo. Hanno lavorato insieme a me persone che non sono professioniste e che si sono appassionate a questo progetto indipendente. In Italia non esistono videogiochi così piccoli».

Cosa resta a chi finisce di giocare a Freud’s Bones?

«È un gioco che parla della frammentazione di sé stessi. Chi lo finisce ne esce con una sensazione di vuoto. I casi clinici a cui si lavora sembrano quasi reali e quindi alla fine questo gioco lascia la stessa sensazione di amarezza che si prova una volta finito un bel libro».

E a te cosa rimane dopo questa esperienza di programmazione? Ne faresti un altro?

«Il gioco ora si può comprare su piattaforme come Steam ma non penso sarà questa la mia entrata principale. Freud’s Bones è un progetto che può darmi credibilità ma ora mi piacerebbe continuare a fare lavori inerenti al gaming, non tornei a fare lavori “normali”. Per adesso non farei un altro gioco. Se però lo facessi, vorrei lavorarci sempre come indipendente, senza passare dalle grandi case di produzione».

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