Il premio Nobel: gli studenti devono avvicinarsi allo studio in maniera concreta
Il professor Giorgio Parisi propone di insegnare la fisica anche ai bambini dell’asilo. Il premio Nobel 2021 fa parte di un gruppo di lavoro con professori illustri istituito dal ministro della Pubblica Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara insieme all’Accademia dei Lincei. E dice in un’intervista a Il Messaggeroche il piano è pronto: «Gli studenti devono poter avvicinarsi allo studio della fisica, ad esempio, in maniera pratica, concreta. Devono poter vedere o realizzare loro stessi gli esperimenti: per passare all’astrazione, bisogna prima toccare con mano», spiega Parisi. Il percorso deve iniziare «il prima possibile, dalla scuola dell’infanzia, poi deve continuare alle elementari, alle medie e così via». E il progetto sulla fisica all’asilo sta partendo grazie alla collaborazione tra i Lincei e il Comune di Roma: «Andiamo a formare le educatrici della scuola dell’infanzia per far sì che i bambini possano avvicinarsi alla matematica, alla fisica o alla geometria nella maniera più naturale possibile». Il docente spiega che «servono gli strumenti giusti, adatti ai bambini dai 3 ai 5 anni. Consideriamo che a quell’età, come espresso in maniera molto forte da Maria Montessori, i piccoli sono “naturalmente scienziati”. Quindi è il momento giusto per farli avvicinare a questi temi». Infine, secondo Parisi «è fondamentale il diritto allo studio, bisogna potenziare le borse di studio soprattutto per i meno abbienti. Penso anche agli universitari, ai fuori sede che vivono forti disagi se non possono accedere a un alloggio, bisogna costruire case per gli studenti. Gli affitti nelle grandi città sono esorbitanti. Lo studio è importante, i ragazzi vanno sostenuti».
Le resistenze interne alla maggioranza non sono poche, ma il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, è intenzionato a fare uscire totalmente il ministero dell’Economia dal capitale di Ita Airways, la compagnia aerea rinata sulle ennesime ceneri di Alitalia. Il nuovo dpcm pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 2 gennaio scorso sembra disegnato su questa eventualità, oltre che per il solo acquirente restato in campo (Lufthansa). È possibile un ingresso in più tappe con la sottoscrizione iniziale di una quota ancora di minoranza attraverso aumenti di capitale di Ita dedicati al nuovo azionista, che comunque secondo il dpcm dovrà essere una compagnia aerea destinata alla fine della procedura ad essere almeno azionista di maggioranza assoluta.
La compagnia di bandiera
Se Giorgetti non vuole vedere più tracce di Alitalia e della sua eredità dalle parti del Tesoro, qualche mal di pancia contro questo piano c’è all’interno della maggioranza, soprattutto in Fratelli di Italia. Non è un mistero che a Fabio Rampelli non piaccia affatto la prospettiva Lufthansa, contro cui si batte da almeno un anno. Ma non pochi suoi colleghi di partito e trasversalmente anche di maggioranza sognano ancora una compagnia di bandiera saldamente controllata dallo Stato italiano. A loro Giorgetti ha risposto molto diretto in privato: “sognare la compagnia di bandiera? Meglio sognare la bandiera. Che è una cosa seria”.
Una voragine da 20 miliardi
Se si leggono i numeri non si fatica a dare ragione al ministro dell’Economia. Open ha calcolato il costo complessivo di Alitalia e delle sue eredi (da Cai a Ita) in 76 anni di storia. Unico dato non ancora ufficiale è quello della perdita di Ita nel 2022 che si basa su stime degli analisti specializzati: 460 milioni di euro. Tutti gli altri sono ormai a consuntivo. Per calcolarli abbiamo utilizzato dove disponibili i bilanci delle stesse società (Alitalia, Lai, Cai, Ita o per i primi decenni quelli Iri in cui erano consolidati i conti), oltre che ai rapporti di R&S di Mediobanca che ha riclassificato quasi tutti i bilanci fino in anni molto recenti. Abbiamo convertito in euro i risultati di bilancio 1947-1999 (dal 2000 sono tutti in euro) e applicato il coefficiente di rivalutazione monetaria in modo da avere tutti i dati in euro del 2022. Il risultato finale è impressionante: la “compagnia di bandiera” italiana è costata in 76 anni 20.364.829.669 euro fra perdite nette di bilancio, interventi socio-assistenziali dello Stato e varie liquidazioni delle “ceneri” della compagnia aerea.
Non è stato un affare per nessuno
Degli oltre 20,3 miliardi di costo poco più del 10%, e cioè esattamente 2.331.395.187 euro, è stato sopportato dagli azionisti privati soprattutto nel periodo non fortunato di Cai, quando lo Stato ha scelto di privatizzare, pur rientrando per un buon periodo attraverso Poste italiane che aveva il 18% della nuova compagnia. I costi diretti per i contribuenti italiani in questi 76 anni sono dunque stati in euro di oggi 18.033.434.669 euro. Le perdite nette di bilancio sono ammontate a 11 miliardi e 864 milioni di euro. Di queste 9 miliardi e 533 milioni di euro attualizzati hanno riguardato le casse dello Stato. A questa somma vanno aggiunti i 2,3 miliardi attualizzati di costi sociali sopportati dalle finanze pubbliche per la gestione dei dipendenti Alitalia e società controllate (Cig, prepensionamenti, etc). Poi 3,3 miliardi di interventi aggiuntivi dello Stato italiano per risolvere problemi alla compagnia nei suoi vari vestiti. E infine 2,9 miliardi di costo non ancora definitivo (qualcosina può ancora tornare a casa) che vengono dalle gestioni commissariali per il fallimento di precedenti scatole societarie.
In perdita 44 anni, quasi sempre dal 2000 in poi
Dei 76 bilanci di Alitalia nei suoi vari vestiti ben 44 sono risultati in perdita, mentre 31 sono stati in utile, talvolta molto risicato e uno solo -quello del 1971- in perfetto pareggio. Gli anni d’oro sono però tutti sepolti nella memoria. Dal 1990 ad oggi sono terminati 33 anni sociali (ultimo di Ita solo con previsione ufficiosa): 29 in perdita e 4 in utile. Dall’anno 2000 ad oggi la contabilità è stata in euro e si sono chiusi 23 anni sociali: 22 anni sono risultati in perdita e uno solo – il 2002 – si è chiuso con un utile che ad euro di oggi ammonterebbe a 121 milioni di euro esclusivamente grazie a una maxi penale pagata da Klm che in euro di oggi ammonterebbe a 199,65 milioni di euro. Senza quella entrata straordinaria in seguito ad arbitrato sul contratto esistente tutti i bilanci di Alitalia ed eredi nell’era dell’euro sarebbero stati in perdita. Nessuna altra compagnia aerea nel mondo sarebbe riuscita a stare in piedi senza fallire per 23 anni con risultati sempre pesantemente negativi.
Gli anni d’oro e l’Olimpiade di Roma
Alitalia è stata fondata a Roma dall’Iri il 16 settembre 1946 con il nome di Alitalia-Aerolinee Internazionali Italiane, ma il suo primo volo che ne ha segnato l’operatività è stato il 5 maggio 1947. I primi tre bilanci (1947-’48 e ’49) sono stati in perdita. E così pure quello del 1950, anno in cui cominciarono a salire a bordo le prime hostess con una divisa ufficiale disegnata dalle Sorelle Fontana (casa di moda della Dolce Vita, ora di proprietà di Olivia Paladino, compagna del leader M5s Giuseppe Conte). Il primo bilancio in utile è stato quello del 1952, e così sarebbe stato per tutti gli anni Cinquanta con la sola eccezione del 1958, chiuso in perdita per assorbire i costi di fusione con la compagnia gemella Lai, fondata nel 1947 al 50% da Iri e al restante 50% dalla Twa americana. La vera svolta però arrivò nel 1960, quando Alitalia divenne il vettore ufficiale delle Olimpiadi di Roma. Quell’anno arrivano in flotta i primi jet e si supera per la prima volta il milione di passeggeri trasportati. Cambia anche la livrea degli aerei e la Freccia Alata originaria viene sostituita dalla A tricolore. Quello degli anni Sessanta è il solo decennio della storia Alitalia con bilanci sempre in utile.
La nuova crisi degli anni ’70
I primi guai arrivano con gli scioperi del 1969 e l’inizio della crisi energetica degli anni Settanta. Il boom di Alitalia si spegne. E il rosso delle rivolte operaie tinge dello stesso colore il bilancio 1970 della compagnia di bandiera. Si salva nel 1971 quando grazie a una operazione di contabilità fiscale si riesce a chiudere il risultato dell’anno con uno zero tondo: il solo pareggio della storia. Ma poi è sempre perdita anche importante nel 1972, nel 1973, nel 1974, nel 1975 e nel 1976 con un crescendo impressionante nel precipizio. La compagnia viene ricapitalizzata dallo Stato e ha un po’ di benzina per cercare di svoltare: tiene durante la nuova contestazione chiudendo in utile i bilanci 1977 e quello 1978. Ma quel che viene ripreso è perso nel 1979. E pur perdendo di nuovo nel 1980, Alitalia cavalca i cieli alla grande durante gran parte degli anni Ottanta, macinando sempre utili fra il 1981 e il 1988.
Fra il 1987 e il 1988 nasce però il Coordinamento sindacale degli assistenti di volo che unisce le varie sigle spezzettate. E a gennaio 1989 inizia a bloccare l’Italia con scioperi che paralizzano il settore aereo. Il bilancio della compagnia di bandiera ne porta le conseguenze: 233,3 milioni di euro di perdita a valuta di oggi. Agli scioperi interni si unisce la situazione internazionale: il 2 agosto 1990 Saddam Hussein invade l’Iraq e parte da lì la prima guerra del Golfo il cui culmine sarà a gennaio e febbraio 1991. Entra nella sua prima crisi geopolitica il trasporto aereo internazionale e saranno tutti in perdita i bilanci Alitalia fino a quello del 1996, che registrò perdite in euro di oggi pari a 907,6 milioni.
La compagnia dei Tastevin
Quel tragico 1996 fu licenziato l’uomo alla guida di Alitalia – Roberto Schisano – e al suo posto arrivò l’unico manager che è riuscito a portare risultati in epoca recente: Domenico Cempella, manager Iri di lungo corso che ancora minorenne aveva trovato il suo primo lavoro come impiegato all’aeroporto di Ciampino. Alitalia lo nominò capo delle operazioni a terra nel 1973, e poi direttore del traffico nel 1981. La compagnia di bandiera era la sua passione, e in pochi mesi elaborò un piano di rilancio che passava attraverso l’alleanza con gli olandesi di Klm e la costruzione dell’hub di Malpensa per lo sviluppo dei voli internazionali e intercontinentali. I risultati si videro nel 1997: utile di 321 milioni di euro di oggi. Anche nel 1998: utile di 294,3 milioni di euro. Il 1999 le cose cominciarono ad andare diversamente: il mondo politico contestava la scelta di Malpensa, i romani fecero barricate per difendere il ruolo di Fiumicino.
Il piano stava sgretolandosi, ma il bilancio chiuse ancora in un risicato utile di 5,6 milioni di euro. Cominciarono gli scioperi, perché Cempella non andava per il sottile sui privilegi che si erano ritagliati sindacalisti e dipendenti Alitalia. Mi raccontò allora di avere scoperto una divisione segreta interna alla compagnia: quella soprannominata dei “Tastevin”. Ne faceva parte qualche decina di piloti, hostess e assistenti di volo che avevano come unico compito quello di girare il mondo per assaggiare i menù di ristoranti stellati e provare le lenzuola di grandi alberghi: se erano di loro gradimento, Alitalia firmava in ogni scalo del mondo le convenzioni. “Vi basterà un a guida Michelin per scegliere. E d’ora in avanti depennate ristoranti stellati e alberghi cinque stelle lusso: non possiamo permetterceli”, disse Cempella ai capi della divisione fantasma, smantellandola quel giorno stesso. Il manager sarebbe stato riconfermato nel 2000, ma vista l’opposizione della politica al suo piano, fece la valigia in meno di un anno.
Lo sfregio delle opere d’arte
Via Cempella si aprono i disastrosi anni dell’euro, con i bilanci tutti in perdita salvo quello del 2002. Come ricordato in precedenza, in quel momento alla guida della compagnia c’era un altro manager Iri – Francesco Mengozzi – ma il solo risultato positivo del secondo millennio venne grazie alla maxi penale pagata da Klm per non avere onorato il contratto con Alitalia che aveva fatto loro firmare proprio Cempella. Non sono riusciti a risollevare la compagnia nemmeno i capitani coraggiosi guidati da Roberto Colaninno e chiamati a salvare Alitalia dalle mira di Air France nel 2008 da Silvio Berlusconi tornato alla guida del governo italiano. La nuova compagnia si chiamò prima Cai e durò sempre in perdita fino al 2013, quando Colaninno si sfilò ed entrarono Poste italiane ed Ethiad. Anche questo fu però un insuccesso, terminato con la procedura di amministrazione straordinaria fra il 2017 e l’autunno del 2021, quando è iniziata l’avventura di Ita.
La vecchia Alitalia pre-Cai divenne una bad company in amministrazione controllata. Commissario straordinario fra il 2008 e il 2011 divenne il professore Augusto Fantozzi, già ministro delle Finanze del governo guidato da Lamberto Dini fra il 1995 e il 1996 e poi ministro del Commercio Estero nel governo guidato da Romano Prodi fino al 1998. Fantozzi poi si dimise dall’incarico, ed è scomparso improvvisamente a Roma il 13 luglio 2019. Quella procedura da lui iniziata è tutt’oggi aperta e spera ancora di riportare nelle casse dello Stato qualcosa di quel che si è perduto, anche attraverso le azioni di responsabilità nei confronti dei manager che hanno fatto registrare le perdite di bilancio più rilevanti. Un piccolo capitolo di quella procedura fu quello della vendita delle opere d’arte acquistate negli anni dalla compagnia. Erano 190 quelle inventariate e in gran parte opera di artisti italiani del Novecento o contemporanei. Pezzi anche pregiati, come mi raccontò lo stesso Fantozzi un giorno a pranzo: opere di Balla, Boccioni, Ceroli, De Chirico, Monachesi, Severini e Vespignani per citarne alcuni.
Fu scelta Finarte per metterle all’asta e ricavarne qualcosa, per un Ceroli (L’Uomo di Vitruvio) fu scelta la vendita diretta ad Aeroporti di Roma. Alla fine però non si ricavò un granché: 1,2 milioni con la sola plusvalenza calcolabile di 938 mila euro. Le opere erano inventariate, ma non avevano certificato né documentazione contabile sulla acquisizione in molti casi. Qualcuna si è rivelata un falso, e ha originato altre vicende giudiziarie. Ma più di una decina erano comunque invendibili. “Qualche genio”, mi raccontò Fantozzi, “aveva pensato bene di esporle sui voli internazionali nella classe Magnifica dove sedevano personaggi importanti e politici. Siccome dovevano essere appese fra gli oblò e non ci stavano, sono state segate per farle diventare a misura. E ovviamente non valgono più nulla…”. Un piccolo episodio. Che rispecchia però la storia più nera e profonda di Alitalia.