Il fratello di Saman Abbas terrorizzato dalle minacce, così il clan vuol farlo tacere: «Ha paura di fare la fine di sua sorella»

I cinque familiari a processo, tra cui i due genitori della ragazza uccisa, continuano a cambiare la versione dei fatti

Si intensificano le versioni discordanti e il rimpallo di accuse riguardo l’omicidio di Saman Abbas, a distanza di circa una settimana dall’inizio del processo in Corte d’assise. Mentre tra pochi giorni il fratello della giovane uccisa diventerà maggiorenne. Il ragazzo è una figura cruciale nella ricostruzione della Procura di Reggio Emilia (che nel 2021 lo ha sentito in incidente probatorio): anche grazie a quanto da lui raccontato sono stati portati a processo cinque familiari, tra cui i due genitori. L’avvocatessa del ragazzo, Valeria Miari, si è opposta alla richiesta delle difese degli imputati di risentirlo: «Questo ragazzo è certo che per aver parlato subirà la stessa sorte della sorella – ha detto in aula -. Ha avuto forti pressioni da persone vicine al nucleo familiare, ha subito un trauma». La Corte non ha ancora deciso se risentire lui, così come l’allora fidanzato di Saman: la decisione probabilmente verrà presa dai giudici più avanti, nel corso del dibattimento, alla luce di quello che emergerà. Il processo per l’uccisione della ragazza riprenderà il 17 marzo, con l’audizione dei primi testimoni indicati dalla Procura di Reggio Emilia. 


Dito puntato contro l’ex fidanzato

I sospetti si concentrano sullo zio della giovane, Danish, e sui cugini Ijaz e Nomanulhaq: i tre sono accusati di essere gli esecutori materiali del delitto. Ma ieri Akhtar Mahmood, avvocato di Shabbar Abbas – padre della 18enne pachistana scomparsa la notte del 30 aprile 2021 – aveva affermato, ai microfoni di Quarto Grado: «Saman Abbas è stata rapita e uccisa. I genitori non c’entrano nulla e neanche la famiglia. È stato incolpato lo zio Danish, ma al momento né noi né voi possiamo dire cosa sia successo realmente. Per noi i colpevoli sono il fidanzato o qualcuno della comunità italiana». Shabbar, anche lui indagato per omicidio, adesso si trova in Pakistan, in attesa di estradizione. La tesi sostenuta dal suo difensore, come ricostruisce il Messaggero, è che la ragazza stessa avesse incoraggiato i genitori ad andare nel Paese, con la promessa di raggiungerli in un secondo momento. Ma poi, prosegue il legale, «lo Stato italiano ha forzato Saman a finire la scuola ed è stata portata in questa comunità, dove non si sapeva che tipo di persone ci fossero. Ripeto: si punta il dito contro la famiglia senza avere prove. Invece è stata rapita».


Gli audio in cui la ragazza esprimeva preoccupazione per il pericolo di essere uccisa dai familiari, a detta dell’avvocato, non costituirebbero «vere prove»: «Il fidanzato ha detto che Saman non aveva il telefono. Forse lui stesso ha voluto far uccidere la fidanzata. Bisognerebbe indagare anche su di lui. Se Saman non aveva il telefono, come sono stati inviati quei vocali? Quegli audio non sono prove». Nel frattempo la compagna di Danish, zio di Saman attualmente in carcere a Reggio Emilia, ha raggiunto l’Italia dal Pakistan. La donna sarà sentita, e potrà riferire anche gli scambi avvenuti via chat all’indomani del delitto. Hasnain le avrebbe scritto una frase chiave: «Un lavoro fatto bene». Ma la difesa chiede di far tradurre nuovamente quei messaggi, da cui potrebbe emergere un nuovo significato. Nel processo influisce anche l’aspetto religioso: le associazioni islamiche, Ucoii, Confederazione islamica italiana e Grande moschea di Roma sono state tutte e tre accolte tra le parti civili, insieme a Udi, Differenza Donna, Trame di Terre, Non da sola e Comune di Novellara.

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