Federica Pellegrini e la bulimia: «Mi vedevo troppo formosa, dovevo vomitare tutto»

La campionessa di nuoto si racconta in un libro autobiografico

Federica Pellegrini, campionessa che ha vinto un oro olimpico e sei mondiali ed è primatista dei 200 stile libero, racconta in un libro la sua bulimia. Martedì 16 maggio uscirà Oro per “La Nave di Teseo”. In un’anticipazione di Repubblica la campionessa parla del suo rapporto con la bulimia. Tutto parte dai Mondiali di Montréal del 2005, dove non riesce a portare a casa l’oro ma vince comunque l’argento. Pellegrini scoppia a piangere durante un’intervista: «Questa medaglia è da buttare. Non ho ancora capito perché la finale mi sia venuta così male. Non trovo risposte a un crono così deludente». Nessuno capisce perché piange per un argento e in molti, dice, la attaccano. Intanto, spiega, da qualche mese si era trasferita a Milano e aveva cominciato ad ingozzarsi con il cibo.


Vomitare e mangiare, mangiare e vomitare

E spiega: «La sera, dopo aver mangiato tutto quello che potevo durante il giorno, vomitavo. Lo facevo sistematicamente, ogni sera prima di andare a dormire, quando il ricordo di tutto il cibo ingurgitato aumentava il senso di colpa. Vomitare era un po’ come ripulirsi la coscienza e anche la mia maniera di metabolizzare il dolore. Si chiama bulimia ma io non lo sapevo. La bulimia per me non era il problema, era la soluzione. Il mio modo di dimagrire senza sacrifici mangiando tutto quello che volevo». All’epoca, spiega, ha 17 anni, è ancora minorenne. Quando viene convocata per una seduta fotografica di SportWeek, vede «quella che a me sembra una povera ragazzina grassa e brufolosa, truccata come una puttana, mezza nuda. Io sono un’atleta, perché mi hanno trasformato in una femme fatale?».


L’immagine della campionessa

Pellegrini racconta che in quelle foto si vedeva «troppo formosa». E quindi: «In quel caso avevo ragione: dovevo vomitare tutto». Spiega che negli anni successivi ha sempre avuto poca fame e nei giorni di stanchezza eccessiva si ingozzava di bibitoni di proteine e carboidrati. «Ma questo è normale per un atleta. Quello che invece mi è successo a diciassette anni a Milano era un’altra cosa. Era saltato tutto. E in più il mio corpo era diventato pubblico. Gli atleti hanno corpi fuori standard, perché il loro obiettivo non è la bellezza ma la potenza. E ogni sport pretende una disposizione di muscoli, leve, vuoti e pieni diversa. Nel nuoto vengono fuori soprattutto le spalle. E io fin da piccola avevo queste spalle larghe, robuste, che mi imbarazzavano se esposte in abiti eleganti. Cercavo di evitare canottiere, top e qualsiasi cosa le mettesse in evidenza».

La dismorfia

Infine, dice, «crescendo ci ho fatto pace. Ho imparato a vestirmi in maniera da far diventare le mie spalle un pregio e non un difetto. Ma non erano le spalle: in quegli anni io mi vedevo un mostro. Dismorfia. È la malattia per cui non riesci a vederti come sei davvero. Lo specchio riflette l’immagine prodotta dal tuo inconscio, dalle tue ossessioni. Quella che vedi non sei tu, ma la proiezione della tua paura, della tua insicurezza».

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