Come funziona il Protocollo emergenza caldo e perché può essere il test per nuove relazioni industriali


Oggi al Ministero del Lavoro il Governo ha varato, con CGIL, CISL, UIL e le associazioni datoriali, un Protocollo operativo per la gestione dei rischi da calore nei luoghi di lavoro, con l’obiettivo di promuovere misure concrete di prevenzione e protezione per i lavoratori esposti a temperature elevate. Il documento — di natura non vincolante ma di forte valenza politico-istituzionale — individua una serie di azioni organizzative, formative e tecnologiche da attuare sia nei settori pubblici che privati, a partire da quelli a maggiore esposizione come edilizia, agricoltura, logistica, trasporti, vigilanza e industria manifatturiera.
Tra i contenuti principali, il protocollo promuove la riprogrammazione degli orari di lavoro per evitare le fasce più calde; il ricorso alla Cassa Integrazione Ordinaria in caso di temperature eccessive o sospensioni imposte da ordinanze locali; l’allestimento di zone d’ombra o climatizzate per le pause; la distribuzione di acqua e sali minerali; l’uso di indumenti traspiranti e DPI termicamente compatibili; l’attivazione della sorveglianza sanitaria mirata; la formazione dei lavoratori sui rischi da stress termico.
È prevista anche una segnalazione rapida dei giorni a rischio tramite i bollettini del Ministero della Salute e l’uso delle mappe Worklimate sviluppate dall’Inail in collaborazione con l’Università di Bologna.
In particolare, il protocollo insiste sulla necessità di utilizzare in modo più sistematico la CIGO con causale “eventi meteo”, prevista dall’art. 11 del D.Lgs. 148/2015. Il testo chiarisce che il trattamento può essere richiesto non solo in presenza di temperature “realmente” superiori ai 35 °C, ma anche quando quelle “percepite” rendono impossibile lo svolgimento in sicurezza dell’attività, o in caso di ordinanze di sospensione.
L’intesa incoraggia le imprese a formulare la domanda anche in assenza di precedenti consolidati, evitando il ricorso ad altre causali meno appropriate (come “mancanza di commesse”) e superando l’idea che la sospensione per caldo debba restare eccezionale. Si tratta di una novità importante, che mira a far uscire la materia dalla gestione emergenziale e a includerla in un quadro più stabile di tutela e prevenzione.
Emergenza climatica: chi decide sui nuovi orari di lavoro?
Il protocollo segna un passo avanti nella definizione di responsabilità condivise: riconosce che la gestione del caldo non può essere lasciata alla sola iniziativa del datore di lavoro, ma deve essere oggetto di confronto, pianificazione e partecipazione. Ciò solleva, però, un nodo giuridico importante: chi può modificare gli orari di lavoro per fronteggiare le emergenze climatiche?
Se l’orario è disciplinato da contratti collettivi o da accordi aziendali, ogni variazione — anche motivata da ragioni climatiche — deve passare attraverso un confronto con le rappresentanze sindacali. Dove invece l’orario è definito unilateralmente, il datore di lavoro può intervenire in autonomia, fermo restando il rispetto delle regole su orario massimo, pause e riposi.
Il quadro si complica in presenza di ordinanze regionali o comunali, sempre più frequenti, che impongono lo stop alle attività tra le 12:30 e le 16:00 nei giorni considerati “a rischio elevato”. Nel 2025, provvedimenti di questo tipo sono stati adottati, tra le altre, da Lazio, Emilia-Romagna, Puglia, Toscana e Campania.
In questi casi, la sospensione è obbligatoria e prevale su ogni diversa regolazione contrattuale. L’inosservanza espone il datore a responsabilità anche penale, in base all’art. 2087 del Codice civile e al D.Lgs. 81/2008.
Le misure a disposizione delle imprese
Al di fuori dei settori formalmente regolati da ordinanze, la gestione organizzativa dipende dalla sensibilità delle imprese e dalla capacità di attuare soluzioni efficaci, anche in assenza di vincoli normativi stringenti. Le aziende più strutturate stanno già intervenendo su più fronti: anticipazione dei turni di lavoro per concentrare le attività nelle ore più fresche della giornata; modulazione delle pause, con la possibilità di allungarle o distribuirle in modo diverso lungo l’orario di lavoro; adozione dello smart working laddove tecnicamente possibile, per evitare gli spostamenti e consentire lo svolgimento dell’attività in ambienti domestici più controllabili.
Sempre più frequente è anche la dotazione di sistemi di raffrescamento mobili o fissi nei reparti più esposti, l’adeguamento dei dispositivi di protezione individuale in base alla compatibilità termica, e la distribuzione programmata di acqua fresca, sali minerali e frutta durante i turni. In alcuni casi, le aziende stanno introducendo veri e propri protocolli interni sul microclima, in accordo con le rappresentanze sindacali, che prevedono soglie di temperatura oltre le quali scattano misure di contenimento del rischio.
Un altro strumento chiave è una gestione strategica delle ferie e dei permessi: le imprese più reattive pianificano in anticipo i periodi di assenza, incentivando l’utilizzo delle ferie nei mesi più caldi e concentrando le attività critiche nei periodi climaticamente meno estremi. In alcune realtà si è arrivati anche alla creazione di banchi ore solidali o accordi su permessi aggiuntivi a recupero, da utilizzare nei giorni con condizioni termiche insostenibili.
Infine, laddove l’intervento organizzativo non basti o non sia possibile, il datore di lavoro può — come chiarito nel protocollo — attivare tempestivamente la CIGO, anche in assenza di precedenti consolidati, e senza attendere che la situazione climatica evolva in vera e propria emergenza. Il ricorso preventivo a questo strumento è considerato dalla stessa intesa istituzionale come un segnale di responsabilità e tutela, non come una misura eccezionale o residuale.
Il ruolo dei datori di lavoro e delle OO.SS.
Il caldo estremo non è una circostanza eccezionale ma una nuova condizione strutturale. Come tale, va affrontata con strumenti giuridici, organizzativi e culturali adeguati. La legge già impone al datore di lavoro, tramite l’articolo 2087 del Codice civile, l’obbligo di proteggere l’integrità fisica e la salute dei lavoratori. Ma tale responsabilità non può restare isolata: la collaborazione con i sindacati, come previsto nel protocollo, è oggi più che mai necessaria per adottare misure coerenti, equilibrate e sostenibili. È un banco di prova per un nuovo modo di intendere le relazioni industriali (che ha qualche precedente importante: si pensi alle intese raggiunte durante la pandemia per l’adozione delle misure di sicurezza sui luoghi di lavoro) in cui la gestione del rischio climatico diventa parte integrante del confronto sindacale.