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Come si “fotografa” un atomo? Intervista a Stefano Bonetti del Magnetic Speed Limit

13 Gennaio 2019 - 14:59 Juanne Pili
Abbiamo intervistato il fisico Stefano Bonetti del progetto Magnetic Speed Limit. "Filmerà" gli atomi con magneti nanoscopici. I suoi studi saranno importanti per il progresso delle tecnologie informatiche e i futuri computer quantistici.

Stefano Bonetti (36 anni, milanese di nascita) è uno scienziato che si divide tra l'Italia e la Svezia. Professore associato all’Università Ca’ Foscari di Venezia, ha una cattedra anche al dipartimento di Fisica dell’università di Stoccolma. È stato definito un classico caso di cervello italiano trasferitosi all'estero. Ma ciò che lo contraddistingue maggiormente è il progetto al quale sta lavorando attualmente: il Magnetic Speed Limit.

Cos'è il Magnetic Speed Limit?

La sfida lanciata dal progetto è quella di riuscire a studiare il comportamento di magneti nanoscopici, raggiungendo risoluzioni tali da "filmare" gli atomi. Un'impresa difficile da descrivere senza correre il rischio di riportare gravi imprecisioni, questo però non ha impedito al European Research Council (agenzia europea che supporta le ricerche scientifiche pionieristiche) di raccogliere quasi due milioni di euro per finanziare le sue sperimentazioni. 

Abbiamo pensato così di contattare il professor Bonetti chiedendogli di spiegare per Open in cosa consista esattamente il suo progetto e quali potrebbero essere i contributi che potrà fornire nel campo delle tecnologie informatiche, con uno sguardo anche agli studenti italiani che oggi sognano di realizzare i propri progetti futuri.

Come si

Riguardo al Magnetic Speed Limit, ci sono cose che fanno pensare a una puntata di Star Trek: si parla della possibilità di "fotografare" gli atomi raggiungendo la "ultravelocità", attraverso enormi laser a elettroni liberi. È corretta come sintesi?

«A riguardo dell’ultravelocità è molto “cool” il paragone con Star Trek. Però penso che non sia molto adatto, e credo che la colpa sia di una questione grammaticale su cui noi scienziati non siamo stati attenti quando abbiamo scelto questo termine. “Ultraveloce” non è la parola che andrebbe usata. La velocità si misura in metri per secondo (o chilometri per ora), mentre qui stiamo parlando solo di tempi (secondi). Si parla di dinamiche ultraveloci quando queste hanno una durata tra 1 femtosecondo [un milionesimo di miliardesimo di secondo, Nda] e 1 picosecondo [un milionesimo di milionesimo di secondo, Nda]. La luce viaggia sempre alla stessa velocità, quello che noi usiamo sono “pacchetti” di luce con quella durata. Per luce di lunghezze d’onde normali (visibili), i laser da laboratorio esistono dagli anni 90 (dopo la scoperta premiata quest’anno con il Nobel per la fisica). La rivoluzione portata dai laser a elettroni liberi è che questi impulsi ultracorti (forse questa è una parola migliore) sono a raggi X, cioè con una lunghezza d’onda 1000 volte più piccola. La risoluzione di un microscopio è con buona approssimazione uguale alla sua lunghezza d’onda, così che si vuol vedere con risoluzione atomica abbiamo bisogno di raggi X».

Perché conoscere meglio il magnetismo ci aiuterebbe a rivoluzionare le tecnologie informatiche?

«La gran parte dell’informazione digitale è immagazzinata in forma magnetica. I film da Netflix sono registrati su dei dischi magnetici in qualche data center in giro per il mondo, in forma di nano-magneti (delle nano-calamite se vuoi) che puntando con il polo nord in una direzione o in quella opposta formano la catena di bit 1 e 0 necessaria a codificare l’informazione in forma digitale. Ora, noi vogliamo usare sempre piú dati (vogliamo vedere più contenuti on-demand, a casa e sui nostri smartphone), il che vuol dire che sia la dimensione, che il costo e l’energia usata da questi data-centers continua ad aumentare. Usiamo adesso il 4% – 5% dell’energia elettrica mondiale per i data-centers, la previsione è il 20% nel 2025, e 100% nel 2040. L’ultima cifra rende chiaro che ovviamente non è possibile continuare così. Se riuscissimo a creare bit magnetici più piccoli possibile, potremmo invece soddisfare la nostra richiesta tecnologica senza arrivare a costi economici ed energetici impossibili da sostenere».

Possono esserci collegamenti anche con lo studio dei computer quantistici?

«Assolutamente, il magnetismo è forse l’unico effetto che richiede la fisica quantistica per essere spiegato che “funziona” nel nostro quotidiano, e di cui tutti abbiamo esperienza. La mia ricerca in realtà punta ad arrivare al limite quantistico, cioè alle dimensioni magnetiche più piccole possibili prima che effetti quantistici molto interessanti, ma che complicazioni nel salvataggio dell’informazione in forma di 1 e 0, inizino a comparire. Ci sono in realtà altri filoni di ricerca in cui unità magnetiche ancora più piccole, fino al singolo atomo, vengono proprio usate per creare stati quantistici con infinite più combinazioni di solo 1 e 0, con l’idea di creare un quantum computer. Quella è ricerca ancora più estrema, nel senso che non abbiamo ancora la tecnologia pronta per usare effetti quantistici su scala industriale. Ma la scienza e la tecnologia avanzano, e non è impossibile pensare che in un futuro non troppo lontano sarà anche quella una realtà».

Sei stato definito un tradizionale caso di cervello italiano in fuga. Cosa cambieresti in Italia per far sì che i giovani possano realizzare le proprie aspirazioni?

«Se avessi potere politico o avessi a disposizione una fondazione privata, finanzierei borse Erasmus o simili programmi di scambio anche per gente ha ha già finito l’università, così che chiunque voglia passare un periodo, anche breve, all’estero, indipendentemente dalle individuali possibilità economiche, possa farlo. E se fossi un ragazzo o ragazza nella situazione di poter sceglier di partire ancora per l’Erasmus, lo rifarei ancora, senza esitazione e vincendo l’idea del disconforto di allontanarsi dalla sicurezza di casa. L’Erasmus è una delle grandi idee nate dall’Europa unita: milioni di studenti della mia generazione hanno potuto vivere sulla loro pelle che cosa vuol dire andare a vivere in un paese dove si parla una lingua diversa senza passare un vero confine. È un'esperienza che apre la mente, non solo a livello scientifico ed economico (i tanti miei compagni di Erasmus da tanti paesi diversi hanno avuto ottime carriere, probabilmente migliori che se fossero rimasti a casa) e di conoscenza di una o più altre lingue. L’essere immigrato in un paese straniero è una esperienza formativa fondamentale, che prepara a un mondo che è sempre più cosmopolita e che fa apprezzare il proprio paese di origine in maniera più oggettiva».

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