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Autonomia, nella lotta tra Nord e Sud per rilanciare il lavoro guardiamo a Seattle

18 Febbraio 2019 - 07:42 Francesco Seghezzi
In un'economia nella quale gli Stati nazionali hanno sempre meno peso prendono spazio i territori. Perché senza territori che sappiano attrarre capitale umano e ospitare innovazione il lavoro di qualità non crescerà 

Il tema dell’autonomia regionale sembra creare più problemi del previsto all’interno della maggioranza. Ed era prevedibile essendo i due partiti che la compongono legittimati con un voto popolare dalla forte caratterizzazione geografica.

Ma uno scontro mosso da volontà elettorali e di salvaguardia del proprio bacino di voti non aiuta ainquadrare il tema nella sua complessità e soprattutto nella sua importanza.

Infatti, autonomia o no, il futuro dell’innovazione, dello sviluppo e soprattutto del lavoro passa per i territori. Territori che non hanno per forza l’estensione geografica di una regione, ma anche quella della città, come sostiene da tempo Enrico Moretti.

Sappiamo infatti che ormai da quarant’anni è in corso un processo di trasformazione del sistema economico mondiale che rende gli Stati nazionali attori di secondo piano.

Processo che la rinascita di spiriti più o meno nazionalisti negli ultimi anni non ha bloccato, ma che anzi l’innovazione tecnologica ha ulteriormente accelerato tanto che ormai è accettato da tutti il concetto di catena globale del valore.

Con questa idea si sintetizza la nuova struttura dei processi di produzione dei beni (e in parte dei servizi) che avvengono a livello globale, lungo catene alla cui testa ci sono i ruoli più progettuali e strategici e, via via che si scende, quelli più esecutivi.

Un esempio può essere il mondo dell’hi-tech dove l’ideazione dei prodotti e la ricerca avviene all’interno di hub territoriali avanzati con forte concentrazione di capitale umano e la produzione delle componenti di uno smartphone, ad esempio, avvengono in paesi sottosviluppati con un costo del lavoro molto inferiore a quello in cima alla catena.

In uno scenario del genere non vincono gli Stati, vincono i territori. I territori che riescono a costruire un ecosistema che accolga gli anelli più alti delle catene del valore globali. E per farlo servono scuole, università, centri di ricerca, infrastrutture materiali ed immateriali, servizi, fornitori, norme civili e amministrative, eccetera.

Tutto questo cambiamento in un Paese come l’Italia, caratterizzato da differenze ormai decennali riguardo alla struttura produttiva e, ai settori caratteristici, è ancora più importante. E soprattutto lo sviluppo dei territori e la maturazione di nuove politiche per lo sviluppo industriale che abbiano il territorio come oggetto che può rilanciare il lavoro. Politiche per il lavoro nazionali, uguali per ciascun settore, servono a poco nel contesto internazionale in cui ci troviamo. E allora che fare?

Qualche spunto arriva dall’estero. Prendiamo ad esempio la Germania e il Fraunhofer-Gesellschaft. Si tratta di una rete di 60 centri di ricerca che lavorano a stretto contatto con le imprese per creare innovazione, formare il capitale umano e modernizzare i sistemi produttivi. Sono la chiave della diffusione dell’Industria 4.0 nel territorio tedesco ed hanno una collocazione tematica nei vari Lander e nelle varie città nella forma degli High Performance Centers.

I territori si specializzano e diventano leader delle catene globali del valore nelle quali si inseriscono. E l’Italia ha sviluppato nella sua storia un modello originale di integrazione territoriale, quello dei distretti industriali. Oggi questi distretti hanno la necessità di innovarsi attraendo capitale umano di qualità e di specializzarsi lungo le nuove direttrici dell’innovazione, a partire dal digitale.

Non solo regioni quindi. La Lombardia, così come il Veneto e l’Emilia Romagna non sono realtà omogenee, e anche nel loro caso politiche regionali rischierebbero di non valorizzare i singoli territori. La dimensione giusta potrebbe essere quella della città, o della città con una rete di comuni limitrofi. Pensiamo agli esempi statunitensi di Seattle o della Silicon Valley, ma anche la Cina con Shenzhen, pur con un ruolo chiave dello Stato centrale che ha voluto però scommettere su un hub territoriale.

In un Paese come l’Italia nel quale cresce soprattutto il lavoro di bassa qualità è fondamentale per invertire la rotta consentire ai territori di attrarre valore e creare innovazione. L’alternativa è essere lentamente tagliati fuori e finire per posizionarsi agli ultimi posti delle catene del valore, con tutte le conseguenze che questo comporta in termini di salari e benessere.

Questo non significa che maggior centralità ai territori non possa generare nuove problematiche, prima tra tutte quella del dualismo tra centri cittadini e periferie limitrofe. Ma ciò non basta aintestardirsi nel guardare alla sola dimensione nazionale. Il dibattito sull’autonomia deve guardare a tutti questi aspetti, positivi o critici, per non ridursi all’egoismo di pochi o alle richieste assistenziali di altri.

L’inclusione passa dall’innovazione, dalla crescita e dal lavoro di qualità. Comunque andrà l’iter dell’autonomia regionale differenziata, questo non potrà che essere l’inizio per una vera riscoperta della centralità di territori e città.

E il ruolo non può averlo solo lo Stato centrale che deve fare i dovuti passi indietro, controllando che questo avvenga nel modo più equo possibile. Un ruolo importante possono averlo le imprese e i lavoratori stessi, sviluppando quegli accordi territoriali oggi ancora poco diffusi e oggetto di molti veti.

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