È ora di cominciare davvero la battaglia contro gli appestatori del web

La libertà non può essere libertà di insulto. La libertà non può essere impunità. La licenza di offendere via web non si può ammantare del diritto all’anonimato, del passamontagna di un nick. Siamo in un paese libero, non sotto una dittatura in cui chi esprime un pensiero o un’opinione non ortodossa rischia qualcosa. Colpire dall’ombra è il metodo dei sicari e dei codardi, e sui social è l’arma dei burattinai di troll, delle mosche lanciate a sciame per ferire e fare massa critica. Non si capisce perché quel che è vietato nella realtà fisica della nostra società dovrebbe essere invece concesso nella realtà “virtuale” di Internet.


Da tre anni metto in fila questi concetti, perché osservo una tendenza all’impunità sempre più estesa, e a un uso sempre più ribaldo del vuoto legislativo, lamentato anche dai dirigenti della Polizia Postale, sceriffi senza pistola del Far Web. Ogni tentativo di dibattito sull’argomento viene  deriso da autoproclamati esperti (uno è finito a fare il segretario di un deputato M5s, chissà se sulla sua targa a Montecitorio c’è il nome vero o un nick).


Ma i tempi sono maturi per affermare per legge due concetti di fondo: la diffamazione via web vale quella a mezzo stampa, e nessuno può nascondersi dietro finte identità, sfruttando l’asimmetria territoriale tra forze dell’ordine italiane e proprietario extraeuropeo del social network. La legge sul cyberbullismo è solo un primo tassello del mosaico legislativo necessario per combattere lo strapotere degli avvelenatori dei pozzi, dei prepotenti incappucciati e dei loro zelanti teorici.