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Massimo Pericolo è il primo volto della nuova scuola del rap italiano – L’intervista

04 Luglio 2019 - 13:09 Valerio Berra
Il suo vero nome è Alessandro Vanetti ed è bastata una solo canzone per accendere l'interesse di tutta la scena

Venerdì 24 maggio, periferia est di Milano. A qualche chilometro dall’aeroporto di Linate è cominciato il Miami, il Festival della Musica e dei Baci organizzato da Better Days e Rock.it. È passata la mezzanotte e davanti al Tidal, il palco principale, è appena finito il concerto dei Fast Animals and Slow Kids. Il pubblico comincia a prepararsi per la esibizione successiva.

«Sono qui per lui. Mi hanno detto che è il suo primo live». «Non vedo l’ora di sentire come suona». «Guarda, io il biglietto di oggi l’ho pagato solo per sentirlo dal vivo». Il nome segnato sul cartellone è Massimo Pericolo. Non si sa molto di lui. Poche interviste, un paio di singoli pubblicati su YouTube e qualche vecchio video di quando ancora si chiamava Skinny Bitch.

Quello che si sa invece è che questo sarà il suo primo live ufficiale ed è programmato nella serata di apertura di Miami, uno dei festival più importanti per la musica indipendente. È qui che si colgono le nuove tendenze e le direzioni che prenderà il mercato. Soprattutto ora che la divisione tra indie e musica commerciale sembra avere sempre meno senso. Scocca l’1.00 di notte. Massimo Pericolo sale sul palco.

Una musica che nasce tra noia e provincia

Massimo Pericolo è solo un nome d’arte, o forse un altro personaggio. Quel ragazzo che ha stravolto la prima notte del Miami salendo sul palco a petto nudo, con un giubbotto e delle orecchie da gatto si chiama Alessandro Vanetti ed è del 1992. Non viene da qualche periferia all’ombra di una grande città, ma da un luogo, fisico e mentale, diverso: la provincia. Molta della sua vita, fino ad ora, è raccontata in Scialla Semper, il suo album d’esordio.

Perchè Alessandro Vanetti è diventato Massimo Pericolo?

«È tutto legato al modo in cui è nato questo nome. Doveva essere un nome da rapper per un progetto parallelo a quello originale. Io prima cantavo come Skinny Bitch, poi ho trovato questo nome perchè volevo fare qualcosa di gansta rap, una specie di parodia di me stesso. Esageravo tutto, esageravo la mia vita e quello che avevo intorno. Poi i miei amici mi hanno convitnto a tenerlo. Era d’impatto, funzionava».

La canzone che ha costruito tutto l’hype intorno a te è 7 miliardi. Partiamo dal video, come l’hai girato?

«Non avevamo nessun budget. Quel video è stato fatto a favori e passaparola. La macchina è di mia madre, il camper non doveva neanche esserci. Ce l’ha portato un amico che tornava da un rave».

Fonte: YouTube | Il video di 7 miliardi

Tutto inizia con te che bruci una tessera elettorale.

«Io ho ricevuto la tessera a 18 anni e non l’ho mai usata. Non è che bruciarla serva a qualcosa. È un messaggio chiaro per dire come sono fatto io. Io ho diritto di voto da nove anni e non ci ho mai creduto. È un diritto fasullo. Hai una scelta, ma l’offerta viene decisa da partiti in gara tra loro».

Perchè quel video si è diffuso così tanto?

«Secondo me non è tanto il video, è il pezzo che ha fatto succcesso. Quando è uscito l’album, anche se 7 miliardi era già conosciuto, è arrivato a 2 milioni di ascolti in streaming. Ovviamente il video è forte quasi quanto il pezzo. Rende bene l’idea di cosa voglio dire».

Qual è il sentimento più forte da cui sei partito per scrivere quella canzone?

«La rabbia. È una canzone che racconta la mia esperienza personale. Ha funzionato per questo. La rabbia è un sentimento universale ma di persona in persona cambia l’obiettivo verso cui è rivolta. Si passa dalle difficoltà economiche a quelle con i genitori».

7 miliardi dopo tante barre disperate si chiude con un sorriso, e una frase: «Voglio solo una vita decente». Cosa vuol dire per te?

«Sicurezza economica e serenità, in generale. Da un anno la mia vita è cambiata, sto facendo delle esperienze buone e sono tranquillo. Sono stufo di stare male. Tante cose non posso tornare indietro a risolverle. Sono successe e mi restano. Non posso avere una famiglia come avrei voluto o un’adolescenza come avrei voluto. Quello che posso fare, ora, è cambiare il mio futuro».

In un’altra canzone, Sabbie d’oro, inizi dicendo «Ne ho combinate un paio». Cosa intendi?

«Io ho provato a studiare, ma non ho finito la scuola. Non stavo bene a casa. Ho inziato a lavorare. Ho fatto l’operaio, poi lo spacciatore e poi ancora l’operaio. Ora sto facendo il rapper».

Fonte: YouTube | Il video di Sabbie d’oro

Hai detto che Sabbie d’oro è una spiaggia di Brebbia, sul lago Maggiore. Nei tuoi testi torna la provincia. Che cosa vuol dire per te?

«Io vivo nella provincia di Varese, a Brebbia. Prima vivevo a Gavirate ma, insomma, ho sempre vissuto in provincia. Non è come la periferia, è una realtà diversa. La provincia è un concetto comune per tante persone. È un posto che rimane più indietro rispetto alla città, un posto in cui le cose arrivano dopo. C’è più noia, più autodistruzione. Forse per me è soprattutto questo: provincia come senso di vuoto. È vivere con la consapevolezza che le cose succedano da un’altra parte».

Amici è una canzone che racconta proprio questo, una serata in provincia a base di viaggi in auto, feste e alcolici presi nei supermercati.

«Nell’ultimo periodo ho preso coscienza di quanto sia importante nell’Hip Hop mandare un messaggio e rappresentare la tua realtà. Quando fai una canzone rap parli anche per gli altri. La musica funziona anche per questo. Scrivere una canzone in cui le persone si trovano».

Un altro aspetto della tua vita che racconti in Scialla Semper è il carcere. Ci sei stato qualche mese ma è un’esperienza centrale nella tua narrazione. Come lo ha vissuto?

«Guarda io l’ho vissuto male e forse ho vissuto ancora peggio il periodo successivo. Quando sono uscito mi sono sentito come quei soldati che tornano dalla guerra e non riescono più ad adattarsi alla vita di tutti i giorni».

C’è qualcosa di peggio secondo te?

«Peggio del carcere c’è solo la malattia».

In qualche modo, ti è stata utile questa esperienza?

«Io sono molto introspettivo. Ragiono sulle cose. Andare in galera mi ha permesso di capire tante cose personali. Però è dipeso da me, non dal carcere. Io quando tocco il fondo imparo sempre qualcosa».

Prima del Miami non hai fatto nessun live come Massimo Pericolo. C’era tanta attesa, e si sapeva molto poco di te.

«L’attesa l’abbiamo creata noi. Fino all’ultimo, dopo aver pubblicato i primi pezzi non abbiamo voluto fare live, interviste o featuring. È stato un lavoro molto paziente. Anche perché al Miami ho cantato davanti a un pubblico che non era solo il mio ma anche quello di altri cinquanta artisti».

Cosa hai provato appena ti sei trovato sul palco davanti a tutte quelle persone?

«Quando ero sul palco ero contento. Nel camerino è venuto a trovarmi Noyz Narcos, un rapper che ho sempre seguito. Mi ha detto: “Spacca tutto che l’aspettiva è alta”. Ho pensato che non potevo deluderlo».

Credi di rappresentare la nuova scuola del rap italiano?

«Oddio, è difficile. Dovrei provare a guardare la cosa da fuori. Se arriva questo messaggio ne sono contento. Faccio quello che ho imparato ascoltando gli altri. L’unica cosa a cui tengo è mandare un messaggio sincero e scrivere bene, facendo belle canzoni. E questa, forse, è una cosa un po’ inusuale negli ultimi anni».

Quanto durerà questo hype?

«Io spero di fare ancora più successo. Spero che ci saranno i primi soldi, i tour. Se sono arrivato a così tanta gente non mi voglio fermare qui. Voglio continuare a scrivere. La mia vita sta cambiando, spero di riuscire a mettere in rima anche le esperienze nuove. Non posso fare una carriera sul fatto di essere stato in carcere».

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