Perché la campagna «Odiare ti costa» non è la soluzione contro i post di odio in rete
Recentemente è divenuta virale in rete la campagna #odiareticosta. L’iniziativa si prefigge il compito di identificare e far sanzionare chi viene sorpreso nei Social a pubblicare post e commenti di hate speaking, ovvero con contenuti d’odio. Il tutto con l’appoggio di un vero e proprio pool di legali, “hacker etici” e investigatori privati, messi a disposizione gratuitamente.
Nella loro inchiesta Riccardo Fine e Luca Vitale del canale YouTube Da grande voglio fare il Buddha, fanno notare che l’avvocatessa Cathy la Torre – promotrice di #odiareticosta – sarebbe a sua volta l’autrice di un post controverso pubblicato su Twitter, che potrebbe essere derubricato come di odio. Quello – poi rimosso e attribuito a un collaboratore – sui «maschi bianchi»:
«Viviamo nell’epoca del maschio etero bianco che oltre ad essere politicamente inadeguato è fortemente dannoso appena apre bocca».
I due youtuber scavano sulle origini mediatiche dell’iniziativa, lanciata con l’appoggio della casa editrice Tlon e dello studio legale Wildside di Bologna, lo stesso di la Torre. Il problema starebbe nell’aspetto deontologico di tutta l’operazione. Diversi intellettuali e influencer hanno aderito all’iniziativa #odiareticosta con intenti più che condivisibili.
Il loro “manifesto” viene presentato in un video realizzato da la Torre assieme alla filosofa Maura Gancitano:
«L’idea proposta sarebbe quella di denunciare o intraprendere azioni civili contro chi fa illeciti digitali – spiegano Luca e Riccardo – ad esempio diffamazione, ingiurie e minacce. Ma non solo, hanno un obiettivo pretenzioso e quasi vagamente megalomane, ossia togliere l’odio dal Web».
Denunciare l’odio in rete è legittimo: ma in che modo?
Altre iniziative in passato avevano denunciato il proliferare dei commenti d’odio nel Web, come quella dell’ex presidente della Camera Laura Boldrini, con tanto di provvedimenti legali contro gli hater. Boldrini era stata infatti una vittima privilegiata della macchina del fango durante tutto il suo mandato.
Il problema quindi è serio e difficile da contestare. Tuttavia gli autori di Da Grande voglio fare il Buddha rilevano alcune anomalie insite nella campagna #odiareticosta che potrebbero aggravare la situazione, ben lungi dal risolvere davvero qualcosa.
«Odiare ti cosa – recitano le promotrici dell’iniziativa – vuol dire che odiare ti costerà del denaro, ti costerà con ogni probabilità una sanzione. Non ti costerà una ammenda, dieci giorni di carcere convertiti in lavori socialmente utili. No, odiare ti costerà del denaro. Nello stesso modo quel commento ti costerà del denaro».
Come funziona in Italia il servizio legale gratuito
Il servizio legale gratuito proposto dall’iniziativa è correlato dall’invito a tutti i simpatizzanti in rete a segnalare e poi, casomai, a denunciare. Il problema non sta solo nella possibilità che si generi una caccia alle streghe. Tutto questo meccanismo potrebbe, infatti, costituire una grave violazione del codice deontologico forense.
«È bene avvisare chiunque decida di aderire a questa iniziativa – continua Luca Vitale – che il codice deontologico forense vieta, eccetto rarissimi casi (amici stretti, parenti, coniugi) la prestazione professionale gratuita».
Qualsiasi avvocato sa che, a parte casi rarissimi come quelli citati, un legale non può prestare la sua opera gratuitamente, sia per tutelare il decoro dell’avvocato, sia per non inquinare il mercato attraverso manovre sleali di accaparramento dei clienti (Art. 37 del Codice deontologico forense).
In questo caso l’Ordine degli avvocati di Bologna sarebbe titolato a intervenire per far rispettare il Codice deontologico, questo però non ci risulta essere ancora avvenuto. Inoltre, l’iniziativa si prefiggerebbe anche l’obiettivo di creare quella che potrebbe sembrare quasi una “polizia privata”:
«Ci servono investigatori privati – spiegano le promotrici – Una parte dei commenti vengono da persone fisiche, abbiamo bisogno di investigatori per arrivare all’identità reale di queste persone. Esperti informatici forensi o haker etici, gli hacker etici sono quelli che ci aiuteranno nell’acquisizione di queste prove attraverso la rete».
Esiste quindi il serio pericolo che tutto questo possa sfociare in una violazione della privacy delle persone, fino a carpire – magari inconsapevolmente – i loro dati sensibili. Tutti gli intellettuali e influencer che hanno aderito a #odiareticosta ci hanno pensato?
Forse dovremmo imparare a odiare meglio
Siamo sicuri poi che odiare sia sbagliato a prescindere? Il filosofo Riccardo Dal Ferro – il cui ultimo libro è stato pubblicato proprio dalla casa editrice Tlon – ha preso le distanze da questa iniziativa con un articolo su Il Foglio, in cui lancia provocatoriamente un contro-hashtag: #odiaremeglio. Il filosofo spiega a Open perché questa campagna non lo ha convinto.
«Quando tu lanci uno slogan su un tema così complesso – spiega Dal Ferro – questo viene usato a destra e a manca un po’ come pare a tutti. Le persone che hanno inaugurato questa iniziativa potrebbero dire “guarda che le intenzioni con cui abbiamo cominciato sono le migliori”, il problema però è nella percezione».
«Quel che sto vedendo è che queste intenzioni vengono puntualmente disattese, anche questa campagna è già usata per veicolare messaggi tutt’altro che condivisibili». Forse il problema sta anche nel fatto che singoli intellettuali o influencer individualmente pensano di agire nelle migliori intenzioni, ignorando tutti i meccanismi e le eventuali irregolarità che potrebbero esserci alla base.
«Prendiamo per esempio la Murgia – continua il Filosofo – ho pensato ad intervenire sul Foglio quando ho letto che nella sua adesione è riuscita a sostenere che augurare la morte sarebbe un reato. Lì son saltato sulla sedia. Purtroppo, a prescindere dalle intenzioni, questa campagna sta venendo usata in modi terrificanti».
Quindi odiare è un diritto? «No, io dico che odiare è inevitabile – ribatte Dal Ferro – Si tratta di una parte della nostra personalità che non possiamo eliminare da un momento all’altro. Il problema vero, secondo me, non è “non odiare”, bensì chiedersi perché si odia qualcosa. Troppe persone oggi odiano perché qualcun altro ha detto loro di odiare.
“Odi l’immigrato” non perché hai delle ragioni valide: lo fai perché te lo ha detto Matteo Salvini, CasaPound, eccetera. Odi personaggi, Vip o altri, però non sai bene il perché. Allora il punto sarebbe ricreare un po’ di cultura e imparare a odiare meglio, ovvero quando senti un odio nei confronti di qualcosa o qualcuno, prova a chiederti “perché sto odiando?”».
In tutto questo c’è anche il problema di saper distinguere se effettivamente il commento ritenuto d’odio sia legale oppure no: se effettivamente sto diffamando o minacciando una persona. «C’è anche da dire che la campagna inizialmente voleva essere proprio uno sportello legale pro bono – continua il filosofo – poi si è trasformata rapidamente in uno sportello di consulenza dove, a quanto apprendo, ti indirizzano verso un legale di fiducia.
Poi si è parlato di “hacker etici”, investigatori, tecnici, ecc. Forse non pensavano che questa iniziativa avrebbe avuto tutta questa eco. Gli è un po’ scoppiata tra le mani. Il problema, di nuovo, è la percezione di questa campagna». Effettivamente potrebbe apparire anche contraddittoria: si odiano gli odiatori.
«Penso al post di la Torre dove si criminalizza il maschio bianco che vorrebbe comandare – conferma Dal Ferro – salvo poi rimuoverlo sostenendo che sia stato pubblicato da una sua collaboratrice.
Già nel “fascistometro” della Murgia o, prima ancora, con le sue affermazioni sul “nascere maschio in una società patriarcale” equivalente a essere figli di un boss mafioso, ci ho visto tanto odio. Si tratta però di quell’odio un po’ sibillino che si nasconde dietro a presunti ragionamenti che poi, a mio avviso, hanno poco di “ragionato”, hanno soltanto la necessità di farti reagire».
Aggiornamento ore 12.20 del 10 agosto 2019
La risposta dell’avvocatessa Cathy La Torre
In seguito alla pubblicazione di questo articolo, l’avvocatessa Cathy La Torre, promotrice dell’iniziativa #Odiareticosta ha inviato una replica alla nostra redazione. Replica di cui riportiamo due estratti. Il primo riguarda le intenzioni e i metodi della campagna:
«Non sono io, non è Odiare Ti Costa a definire cosa sia reato d’opinione (diffamazione, minaccia, dileggio, incitamento all’odio) ma è la Legge a farlo. Non cerchiamo di censurare libertà di espressione o emozioni, ma di spingere a riflettere prima di premere “invio”».
Il secondo si riferisce ai dubbi sollevati nell’articolo riguardo la possibilità da parte di un avvocato di svolgere la sua professione a titolo gratuito:
«La nostra legge 247/12 afferma addirittura che “l’incarico professionale può essere svolto a titolo gratuito”. La stessa Suprema Corte di Cassazione con Ordinanza 17975/17 ha espressamente detto che “La prestazione dell’opera dell’avvocato può essere, in tutta o in parte gratuita per motivi di amicizia, parentela, convivenza sociale e per esigenze etiche che spetta all’Avvocato stabilire”».
Foto di copertina: Credit/Riccardo Dal Ferro/La contro-campagna provocatoria #odiaremeglio.