«Danni da fumo» prima del divieto nei locali chiusi? Il datore di lavoro deve risarcire lo stesso

La storia che fa giurisprudenza è il caso di un dipendente della Asl Roma D, morto nel 2002 dopo due anni di malattia

Il datore di lavoro deve pagare il risarcimento per «i danni da fumo» anche nel caso in cui il fatto sia antecedente al 2003, anno in cui è entrata in vigore la legge Sirchia che ha imposto il divieto di fumare nei locali chiusi.


Lo ha stabilito la Cassazione che ha affermato che: «In presenza di eventi lesivi verificatesi in pregiudizio del lavoratore e casualmente ricollegabili alla nocività dell’ambiente di lavoro, il codice civile (articolo 2087, in materia di sicurezza sul lavoro) impone al datore di lavoro, anche dove faccia difetto una specifica misura preventiva, di adottare comunque le misure generiche di prudenza e diligenza, nonché tutte le cautele necessarie, secondo le norme tecniche e di esperienza, a tutelare l’integrità fisica del lavoratore assicurato».


La Corte Suprema ha obbligato così la Asl a risarcire gli eredi di un dipendente morto a seguito di una malattia conseguente al fumo passivo nel luogo di lavoro per una cifra di 200 mila euro.

Il caso

La storia destinata a fare giuriprudenza è il caso di un dipendente della Asl Roma D, morto nel 2002 dopo due anni di malattia, il quale lavorava in un ufficio di «dimensioni ridotte» con due colleghi «fumatori», reso «insalubre» anche dalla presenza di fotocopiatrici. Peraltro l’ufficio si trovava nelle vicinanze di un centro di radiologia. Dopo il decesso, i familiari hanno chiesto un risarcimento danni.

L’azienda per cui l’uomo lavorava ha prima subìto una condanna in appello con richiesta danni. In un secondo momento ha però presentato ricorso in Cassazione, dichiarando che «le conoscenze scientifiche, al tempo dei fatti in causa, non erano tali da mettere in guardia i fumatori sui danni alla salute connessi al cosiddetto “fumo passivo”» , e che erano state adottate «tutte le misure di prevenzione, diligenza e prudenza e le dovute cautele secondo le norme tecniche e di esperienza vigenti all’epoca, che non ponevano alcuna restrizione imperativa e tassativa in materia di fumo».

La sentenza

La Corte di Cassazione non ha però accolto le istanze dell’azienda, rigettando il ricorso. La Suprema Corte si è espressa evidenziando «una situazione di accertata azione del fumo passivo in ambiente inidoneo allo svolgimento di attività lavorativa senza rischi per la salute dei lavoratori, al di là della introduzione di specifiche norme».

E ha infine chiosato spiegando che l’esposizione «al fumo dei colleghi di lavoro» non è stata «impedita con efficace predisposizione di misure preventive da parte del datore di lavoro».

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