Mafia, a Caltanissetta chiesto l’ergastolo per il superlatitante Matteo Messina Denaro

Il pm Gabriele Paci, nella sua requisitoria, ha ricostruito l’attività di Cosa Nostra nei primi anni ’90 e il ruolo del superboss

È irreperibile da 27 anni ed è considerato uno dei boss più potenti di Cosa Nostra. Per Matteo Messina Denaro, a capo del mandamento di Castelvetrano, il pm Gabriele Paci ha chiesto l’ergastolo con l’accusa di essere uno dei mandanti degli attentati di Capaci e Via D’Amelio, dove morirono rispettivamente i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. La richiesta è stata avanzata a conclusione della requisitoria, durata otto udienze.


La ricostruzione del pm

«Matteo Messina Denaro è il reggente di Cosa Nostra trapanese quantomeno dal 1991. Il padre Francesco non era presente, così come non era presente Mariano Agate. Matteo Messina Denaro è un mafioso che ha rinunciato a qualsiasi spazio di autonomia per fare carriera in Cosa Nostra e Totò Riina lo nominò reggente della provincia di Trapani», ha detto il pm Paci nel corso della requisitoria in Corte d’Assise a Caltanissetta.


«Quando nel 1991 comincia la guerra di mafia Paolo Borsellino opera nel trapanese, nel territorio gestito da Matteo Messina Denaro. Abbiamo ripercorso quegli anni maledetti», ha continuato Paci, spiegando che Totò Riina prima di dare il via alla stagione stragista, all’attacco violento e frontale contro lo Stato, «dovette veramente convincere i rappresentati provinciali della bontà del suo progetto, riuscire a costruire il consenso».

«Non è sostenibile che Totò Riina avrebbe comunque intrapreso a prescindere quella strada senza avere il consenso di Cosa Nostra, perché se ci fosse stato il dissenso di una delle province ci sarebbe stata una guerra. La storia di quegli anni non sarebbe stata la stessa. Messina Denaro – ha proseguito il magistrato – non può aver prestato consenso con riserva. Fu lui più di tutti l’uomo che aiutò Riina a stroncare sul nascere le voci del dissenso interno».

La “supercosa”

Paci ha poi spiegato che «l’unanimità dei consensi al progetto sulle stragi di Totò Riina fu collegiale». All’inizio degli anni ’90 il capo dei capi può infatti contare «su un gruppo di persone fidate che chiama “supercosa”, ai quali affida il compito di organizzare la “missione romana”», ovvero il tentativo di uccidere il giudice Giovanni Falcone a Roma, dove lavorava al ministero della Giustizia.

«Questo – ha proseguito Paci – rafforza Riina, non soltanto perché ha un gruppo segreto che fa capo a lui ma perché questo gruppo gli consentirà tra le varie opzioni operative di optare per quella che era più funzionale alla realizzazione dei suoi interessi. Scartata la missione romana sceglie quella di Capaci. Indipendente dall’esito la “supercosa” rafforzò i propositi di Totò Riina, con un gruppo di persone pronto ad uccidere».

Paci è tornato poi a parlare del ruolo di Messina Denaro: «Nell’ottobre del ’91, con l’appoggio di Messina Denaro, Totò Riina seppe che aveva questa disponibilità di uomini e mezzi. Avere il consenso di Matteo Messina Denaro – ha sottolineano il pm – gli consentiva di avere delle spie in ogni anfratto di Cosa Nostra che potevano portare alla luce quelli che erano i dissensi interni. Matteo Messina Denaro serve proprio a questo, a stanare e uccidere i riottosi».

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