Sono 30 anni dal delitto di via Poma, e non c’è un colpevole: «Una sconfitta per lo Stato» – L’intervista

«Uno dei primi femminicidi in Italia rimasti senza colpevole. Indagini approssimative e un dolore nel dolore per una famiglia che adesso vuole verità e giustizia» dice a Open l’avvocata Federica Mondani, legale della famiglia Cesaroni

Era il 7 agosto del 1990 quando Simonetta Cesaroni – 20 anni, impiegata nella sezione romana dell’Associazione degli Ostelli della gioventù – veniva trovata priva di vita in uno stabile di via Poma, a Roma. 29 coltellate, seminuda, reggiseno abbassato: il suo assassino l’ha costretta a spogliarsi, l’ha immobilizzata con le ginocchia, tentando di violentarla, poi ha afferrato il tagliacarte e infine l’ha uccisa. Un femminicidio che, a distanza di 30 anni, rimane ancora senza un colpevole. Troppi i dubbi, troppi gli elementi che non tornano. Inizialmente ad essere sospettato era l’ex fidanzato Raniero Busco. È stato condannato a 24 anni in primo grado e poi assolto in appello e in Cassazione. La famiglia di Simonetta, adesso, pretende verità e giustizia.


L’appello della famiglia Cesaroni

ANSA | L’edificio di via Poma a Roma

Il legale della famiglia Cesaroni, Federica Mondani, contattata da Open, ha rivolto un appello alla Procura: «Riaprite le indagini. Se c’è la volontà, si può fare. Le nuove tecnologie, infatti, potrebbero aiutarci, si potrebbero rivedere gli alibi e soprattutto si potrebbero ascoltare tutte le persone che frequentavano Simonetta. Per la famiglia non conoscere la verità è un dolore nel dolore». «Il fatto che dopo 30 anni non ci sia ancora un colpevole è una sconfitta per lo Stato», ha aggiunto. «Forse si poteva fare di più e, senza dubbio, in certe fasi dell’indagine, c’è stata approssimazione. Il luogo del delitto è stato “inquinato”». «L’ex fidanzato di Simonetta? La Procura era convinta della sua colpevolezza».


L’indagine

Prima dell’ex compagno, però, sono stati fermati anche altri uomini, sospettati di essere coinvolti nell’omicidio. Il primo è stato Pietrino Vanacore, uno dei portieri dello stabile (a destare sospetto erano state alcune macchie di sangue ritrovate sui suoi pantaloni). Il secondo, invece, Salvatore Volponi, il datore di lavoro di Simonetta Cesaroni, che finì tra gli indagati. Ma la loro posizione processuale, così come quella di altri amici della vittima, venne presto archiviata. Due anni dopo il colpo di scena con Federico Valle, nipote dell’architetto Cesare, che, secondo gli inquirenti, abitando nello stabile di via Poma, avrebbe ospitato la notte del delitto Vanacore. Come mai? A fare il suo nome – ed è questo l’elemento più strano dell’accusa – era stato Roland Voller, un amico di sua madre che raccontò agli inquirenti di aver appreso proprio dalla donna che il figlio, il 7 agosto, sarebbe tornato a casa sporco di sangue. Ma anche questa pista non portò a nulla. Nessuna prova. Nel 2006, invece, è la volta dell’analisi di calzini, reggiseno e borsa di Simonetta. Sui tessuti ecco spuntare le tracce di saliva dell’ex fidanzato, Raniero Busco, che finirà a processo 19 anni dopo. Ad allarmare gli inquirenti una traccia di saliva sul reggiseno della sua fidanzata e il segno di un morso tra il collo e il seno della vittima. In quel processo avrebbe dovuto partecipare anche il portiere Vanacore che, però, non si presenterà mai. A pochi giorni dalla deposizione in aula, infatti, si toglierà la vita.

Foto in copertina di repertorio: ANSA/DBA

Leggi anche: