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Il Libano alla mercé di Francia e Turchia: «Per Macron è ancora un quartiere francese in Medio Oriente» – L’intervista

Per Marina Calculli, docente di Relazioni internazionali del Medio Oriente all'università di Leiden, la tragedia al porto di Beirut è l'occasione perfetta per Macron - e anche per Erdogan - per sfruttare le loro aspirazioni politiche

Dimenticato dall’occidente, ma radicato nella memoria turca. Cent’anni fa – il 10 agosto del 1920 – le potenze vincitrici della prima guerra mondiale, Italia, Francia, Regno Unito e Giappone si riunirono in un piccolo paesino francese per stipulare quello che sarebbe stato poi conosciuto come il Trattato di Sèvres. Attorno a un tavolo smembrarono l’Impero Ottomano e consegnarono i suoi territori a potenze mandatarie, aprendo la strada alla costruzione di un nuovo Medio Oriente. Al Libano – così come alla Siria – toccò il mandato della Francia.

La visita lo scorso 6 agosto del presidente francese Emmanuel Macron a Beirut sul luogo del disastro – dopo l’esplosione al porto – è il segno di una Francia che vede in qualche modo ancora «il Libano come il suo quartiere mediorientale», commenta a Open Marina Calculli, docente di Politica e Relazioni Internazionali del Medio Oriente presso l’Università di Leiden, nei Paesi Bassi. Alla memoria della Francia mandataria si contrappone quella della Turchia e della politica neo-ottomana di Erdogan che vede nel Libano l’occasione per «rafforzare la sua presenza nel Mediterraneo». Con una politica interna debole, una pesante crisi economica, il colpo di grazia dell’esplosione al porto ha aperto la strada a un nuovo capitolo del gioco delle grandi potenze per ristabilire influenze e riaprire vecchie rivalità.

Dottoressa Calculli, il presidente Emmanuel Macron è stato accolto con un bagno di folla durante la sua visita a Beirut. Ma qual è il gioco della Francia in Libano?

«Dal 2011 la Francia ha cambiato la sua politica nel Mediterraneo cercando di avere una posizione meno marginale in Medio Oriente, soprattutto rispetto al ruolo degli Stati Uniti. La tragedia di Beirut è una grande occasione per Macron, anche perché questa esplosione avviene in un momento in cui gli Stati Uniti sono in evidente difficoltà sia in patria che a livello internazionale. Donald Trump ha in qualche modo delegittimato la sfera di azione degli Usa all’estero, e la Francia – come stiamo vedendo in Libia e in maniera più velata in Siria, sta cercando di adottare una politica più da protagonista. I toni che Macron ha usato durante la sua visita fanno intendere che la Francia considera ancora il Libano il suo quartiere mediorientale. Quello che sorprende non sono tanto le parole del presidente francese, che ha proposto un patto sociale – come se la Francia fosse ancora un rappresentante politico – quanto l’accoglienza riservata a Macron. Questo mostra da una parte quanto ancora forte siano le mire imperialiste degli Stati, e dall’altra la disperazione della popolazione che è stremata a tal punto da essere disposta ad accettare un nuovo mandato francese».

La Turchia ha invece offerto il suo porto di Mersin. Un altro segnale delle aspirazioni di Erdogan nel Mediterraneo orientale?

«Ankara sta agendo in Libano esattamente come la Francia. A tutti coloro che si dichiarassero di origine turcomanna ha promesso la nazionalità turca. Anche per il ministro degli Esteri turco Mevlüt Çavuşoğlu c’è stato un bagno di folla nelle strade, facendo un po’ il verso a Macron, anche se con meno risonanza mediatica. È chiaro che dal canto suo la Turchia ha una politica neo-ottomana e sta cercando di proiettare la sua influenza nel Mediterraneo, con vecchie ambizioni imperiali che ritornano. È la storia che si ripropone. La Turchia ha interessi nel nord Africa in Libia, nel Levante è estremamente attiva in Siria. Sono aspirazioni politiche ma anche geostrategiche. Ankara ha un fortissimo interesse nello sfruttare i giacimenti di gas che si trovano nel Mediterraneo tra le acque del Libano e di Cipro ed è questo uno dei motivi per cui il Paese dei cedri è così importante».

Il 10 agosto il primo ministro Hassan Diab si è dimesso e il governo è stato sciolto. Una decisione presa solo per soddisfare la rabbia popolare o ci si può aspettare qualche vero passo in avanti?

«Queste dimissioni sono arrivate persino tardi. Ci sono stati tre giorni di proteste anche molto violente prima che il premier si dimettesse. In una situazione del genere erano abbastanza attese e sono il minimo che si potesse fare dopo una catastrofe simile. Queste dimissioni, un po’ come quelle del precedente governo, sono in realtà degli aggiustamenti non sostanziali e questo perché l’élite più solida del paese, quella che governa da dopo la guerra civile ma in realtà anche da prima, non cambierà. Stiamo parlando di capi partito che hanno guidato milizie durante la guerra civile e che subito dopo – senza mai scontare pene per i loro crimini – hanno ripreso in mano la politica creando continuità tra il pre e il post guerra civile. Subito dopo le dimissioni di Diab abbiamo visto politici pontificare. Parliamo di figure estremante controverse che trovandosi non nella maggioranza di governo si sono sentiti legittimati a criticare l’operato dell’esecutivo, ma in realtà la piazza li conosce perfettamente, e conosce la loro natura. Sanno quale sistema potrebbero riproporre ai libanesi che cercano un cambiamento sostanziale e non solo cosmetico».

Come potrebbero dunque inserirsi le potenze straniere in questa nuova frattura nella stabilità dello Stato libanese?

«Ogni Stato ha un rapporto con il colonialismo differente. La popolazione libanese non ha un giudizio univoco rispetto al passato coloniale. La Francia non era storicamente la protettrice di tutti i libanesi, ma solo di quelli cristiani maroniti. Subito dopo l’indipendenza ottenuta alla fine della Seconda guerra mondiale Parigi è stata rimpiazzata da Washington. Si è però mantenuta una élite filo occidentale, a cui se ne sono aggiunte altre. Hezbollah per esempio ha rapporti stretti con l’Iran e la Siria e le altre potenze regionali. La Turchia non ha una struttura di relazioni con il sud del Libano, ma è molto forte al nord, dove c’è una popolazione a maggioranza sunnita e dove Erdogan ha fatto sentire la sua politica islamista. Gli Usa hanno poi sempre agito da ago della bilancia fornendo aiuto all’esercito libanese.

Dopo l’11 settembre la loro presenza si è rafforzata, per poi diminuire negli ultimi anni. Il Libano è molto diviso e queste divisioni sono state veicolate da quelle che erano i desideri – e le direttive – dei capi di partito. Questi capi sono oggi delegittimati anche nei loro gruppi elettorali tradizionali, e la popolazione è molto più unita contro tutta l’élite nel superamento del sistema confessionale. Un sistema che non è altro che un modo per alimentare divisioni religiose che rafforzano gli affari dei leader politici. L’elemento di novità nelle proteste – anche se non inedito – è la volontà popolare di formare una nuova forza politica che possa inserirsi in questo gioco di élite e rompere questo legame di dipendenza asimmetrica dall’esterno. Citando Gramsci: “Il vecchio sta morendo, ma il nuovo non è ancora nato”». 

Tra la voglia popolare di un cambiamento e le grandi divisioni interne, dove si inserisce Hezbollah?

«Hezbollah è sostanzialmente un attore che è nato all’interno del Libano durante la guerra civile, ma che non è un prodotto del sistema confessionale. Pur essendo un partito sciita e un gruppo armato non è nato all’interno di questo sistema di condivisone del potere confessionale. Per tutti gli anni ’90 e 2000 ha cercato di rappresentare l’alternativa al sistema cercando di porsi al di fuori di esso: uno stato diverso, uno stato islamico, anche se non sono mai stati troppo espliciti nel dichiararlo. Hezbollah ha avuto per molto tempo e soprattutto dopo il 2006 – a seguito della guerra con Israele – molto sostengo indiretto, perché veniva considerato un attore credibile legittimo che faceva parte dell’élite politica libanese e rappresentava una buona parte della popolazione. Negli ultimi anni anche Hezbollah ha dovuto fare così tanti compromessi con l’élite tradizionale – da lui sempre criticata – che è diventato parte del sistema. La complicità con gli altri partiti lo rende quindi assolutamente responsabile di tutto il disastro economico, politico e ambientale del Paese.

Il movimento guidato da Hassan Nasrallah è attaccato dalla popolazione, ma anche dall’esterno, dagli Usa in particolare. Ma anche dalla Francia che nel suo patto sociale ha fatto richieste che mirano a marginalizzare Hezbollah – che continua a essere un nemico per buona parte dei Paesi europei, e della Francia in primis. Il movimento e partito ha sempre proposto un’idea di Libano diversa da quella che era funzionale agli Usa e alla Francia, avamposto nel mondo arabo delle mire prima europee e poi statunitensi in Medio Oriente. In questo momento di crisi profonda, gli aiuti internazionali sono una carta molto forte in mano alle potenze esterne per imporre condizioni e riforme che marginalizzino Hezbollah».

Foto copertina: EPA/WAEL HAMZEH

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