Nicola Zingaretti gioca d’anticipo. E prende di sorpresa gli avversari, o meglio, chi non vede più di buon occhio la sua leadership, perché di avversari veri e propri ce n’è uno solo, il governatore dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini. E prende di sorpresa anche i suoi collaboratori con una mossa, quella di presentarsi dimissionario alla prossima assemblea nazionale del Partito democratico, della quale ha lungamente discusso soltanto con Goffredo Bettini e pochissimi altri.
Il segretario del Pd attraversa un momento difficile, come del resto il suo partito. C’è tutta un’ala che gli contesta l’alleanza subalterna, così la vedono, con Conte e il Movimento 5 Stelle. Alleanza che ha sortito finora un unico risultato: vedere schizzare nei sondaggi i “nuovi” grillini capeggiati dall’ex presidente del Consiglio, mentre dall’altra parte la Lega tiene. I due movimenti sarebbero entrambi largamente sopra il 20 per cento e il Pd sprofonderebbe al 14, da partito centrale nel sistema politico e di governo a terza forza nella ennesima riedizione del bipolarismo imperfetto all’italiana. Per Zingaretti, un incubo.
Sull’altro fronte, da sinistra e non solo, si accusa il segretario di non essersi saputo opporre con decisione al governo di Draghi, laddove un fronte comune con i Cinquestelle avrebbe probabilmente evitato che la politica fosse esautorata e che i partiti si debbano rassegnare a non toccare palla per un po’ (e a vedere con il binocolo le poltrone che contano nel governo). Per non parlare di chi, più semplicemente, giudica Zingaretti una figura grigia e incapace di far concorrenza ai Conte e ai Salvini nel raccogliere il consenso degli italiani. E infine le donne, furiose per come è stata gestita la partita dei ministri, con il Pd unico partito a presentare una squadra di soli uomini in omaggio alla più becera delle spartizioni correntizie.
In mezzo a queste turbolenze e con la prospettiva di un congresso fra qualche mese, Zingaretti ha deciso di mettere il suo malmostoso partito di fronte alla scelta sulla sua leadership in anticipo, finché i malumori non si sono ancora saldati in un fronte unico e dietro a un candidato credibile. Se l’assemblea nazionale gli chiederà di rimanere, sarà infatti impossibile rimettere in discussione la scelta di qui a pochi mesi. E il congresso si trasformerà in una pacifica (ma utile?) convention programmatica.
Che il gioco riesca è da vedere. Ma anche se riuscisse, il difficile per Zingaretti arriverà dopo. Quando si tratterà di restituire un’anima e una vocazione a un partito che ha conservato solo quella dell’argine contro il populismo. Ma come non è bastata per costruire una strada nuova l’opposizione ventennale a Berlusconi, non basterà quella a Salvini. Soprattutto se, quando si va oltre il contro chi siamo e si passa al per che cosa ci battiamo, il Partito democratico non riesce a mettere in campo nient’altro che pallidi echi, ormai sfiatati e privi di appeal, di una grande tradizione novecentesca. Tradizione, appunto, non futuro.
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