La caccia alle varianti in Italia è ancora un miraggio. E chi può farlo è bloccato: il caso Elixir e la burocrazia della Regione Puglia

«In Italia i sequenziatori stanno facendo le ragnatele». A parlare è Graziano Pesole, genetista e direttore di Elixir, l’infrastruttura europea con sede a Bari che gestisce il Covid-19 Data Portal, contenitore dei genomi delle varianti di tutto il mondo. Da gennaio non riescono a partire per un iter burocratico che riguarda la regione Puglia

Tre potenti macchinari capaci di analizzare in totale più di 4.000 campioni di virus al giorno, un personale specializzato offertosi volontario, un centro di expertise capace di interpretare i dati e identificare in maniera capillare tutte le possibili varianti di Covid-19 sul territorio. Una realtà come quella appena descritta in Italia esiste, ma è ferma. E lo è in un momento in cui riuscire a intercettare preventivamente le mutazioni di Covid-19 appare fondamentale per capire contro chi ci ritroviamo a dover combattere.


Open aveva già spiegato a metà febbraio l’importanza del sequenziamento. E cioè di quella procedura che aiuta a capire quanto e come cambia il virus e a trovare, per tempo, le soluzioni per riuscire a vincerlo, anche nelle sue nuove forme. Allora avevamo indagato i nodi alla base del ritardo italiano rispetto a un’attività di così fondamentale importanza, arrivando a capire quanto il problema principale fosse la totale assenza di un piano nazionale. A distanza di due mesi e mezzo, e alla luce di nuove varianti identificate nel mondo, tra cui la recente “indiana”, in Italia sembra essere cambiato molto poco.


Il caso di Bari

«I macchinari sono pronti, i nostri scienziati anche, ma come centro di ricerca non siamo forniti dei kit utili ad estrarre l’Rna dai tamponi. Ci siamo offerti comunque di intervenire anche in questa fase per accelerare il processo ma dalla Regione non arriva niente da settimane». A parlare è Graziano Pesole, genetista e direttore di Elixir, l’infrastruttura europea con sede a Bari che insieme a una rete di università e centri di ricerca italiana gestisce il Covid-19 Data Portal dove si riportano i genomi delle varianti di tutto il mondo. «Siamo in stand by per un puro nodo burocratico e tutto ciò non fa che confermare una modalità di gestione all’italiana che in questo tempo non possiamo più permetterci».

Il centro del professore Pesole si è offerto gratuitamente di aiutare il Ministero della Salute e l’Istituto superiore di sanità nella formazione di una rete di tracciamento: un network di circa 8 centri in tutta Italia coordinato dall’Iss e che per ora sembra non aver preso il via. «Si parla di questo network da gennaio, ma di fatto siamo ancora fermi» spiega Pesole. Nel caso specifico del Centro di ricerca Elixir «il collo di bottiglia», come lo chiama il professor Pesole, sarebbe in un iter burocratico lungo e confuso, che starebbe al momento impegnando la Regione Puglia nel decidere il migliore sistema con cui far arrivare il materiale mancante nei laboratori.

Non si tratta di complessi macchinari di sequenziamento, o di piattaforme di elaborazione di calcolo per genomi, ma di semplici kit necessari alla fase preliminare del procedimento. «Dei kit commerciali di facile reperimento» spiega Pesole, «che servono a noi per poter estrarre l’Rna dal campione del virus prelevato dai tamponi effettuati». Materiale di cui in genere i Centri di Ricerca non si servono perché concentrati su altri tipi di attività, ma che adesso si offrirebbero di fare, insieme ai laboratori zooprofilattici, affinché le operazioni accelerino. «Si sta capendo dal punto di vista amministrativo come gestire la cosa. Speriamo che nel giro di qualche settimana si riesca a partire. Ma l’affare qui è regionale per cui toccherà aspettare».

«In India è la variante inglese ad aver fatto strage»

«Oggi si parla di variante indiana, che secondo i primi grossolani dati epidemiologici non sembrerebbe essere più contagiosa delle altre. Ciò non toglie che siamo attualmente senza strumenti per poter cogliere in tempo qualsiasi tipo di variante davvero pericolosa», continua Pesole. Il pensiero sulla necessità di sequenziamento non può non andare alla variante inglese, attualmente la più diffusa in Italia con il 54% delle infezioni causate nella popolazione italiana. «Se andiamo ad analizzare bene anche la situazione dell’India ci si accorge che tuttora la variante più frequente è quella “inglese“» continua il genetista.

«Se vogliamo avere un dato ancora più preciso da un luogo dove si sequenzia molto e bene si vedrà la stessa cosa: ad oggi il Regno Unito segnala 328 varianti indiane su migliaia di genomi sequenziati al giorno. Il dato di aprile evidenzia 110 varianti indiane su 40.570 genomi. Di questi ultimi, 39.159 sono ricondotti invece alla mutazione “inglese”. Capisce bene come questi numeri ci diano al momento un quadro chiaro su quale delle due abbia un’infettività maggiore».

Un piano nazionale mai partito

«Per rendere efficace il programma di sorveglianza genomica è necessario sequenziare almeno il 5% dei nuovi casi rilevati quotidianamente con i test diagnostici». Lo dice l’Oms insieme al Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc). «L’Italia continua a viaggiare al di sotto dell’1%» ribatte il professor Pesole. Un dato che secondo lo scienziato sarebbe anche più grave di quello che appare se consideriamo la disomogeneità dell’attività di ricerca sul territorio nazionale. Poco meno di 10 giorni fa il sottosegretario alla Salute Sileri raccontava ad Open di un tavolo aperto con il ministro Speranza per la realizzazione di una rete di sequenziamento da mettere in piedi, con la spesa di circa 10-15 milioni di euro. Di network e di varianti si parla però ormai da mesi, con realtà messe in stand-by per pure beghe burocratiche.

Anche sulla cifra eventuale da spendere nella realizzazione del progetto, Pesole nutre dei dubbi: «In Italia per fortuna c’è già tutto, non abbiamo bisogno di investimenti milionari per risorse o sequenziatori, che spesso in molte cliniche rimangono lì a far le ragnatele». Una realtà confermata a metà febbraio anche dal genetista Giovanni Maga del Cnr di Pavia che raccontava di «una tradizione di sequenziamento in Italia molto sviluppata», per cui il vero problema non starebbe «nella necessità di investimento» ma «nella capacità di tracciamento».

Il Covid-19 Data Portal, coordinato dal professor Pesole, offre un monitoraggio dell’attività di sequenziamento in Italia regione per regione a cadenza mensile. «La Campania è il territorio che al momento sequenzia di più, altre regioni grandi o non analizzano proprio oppure lo fanno ma non condividono i dati, cosa ancora più grave», racconta lo scienziato.

Il caos tra i ministeri di competenza

Alla base della lentezza cronica di cui si è parlato finora c’è anche la confusione rispetto agli ambiti di competenza. La rete istituzionale costituita dagli Istituti Zooprofilattici generalmente incaricata di analizzare i tamponi è sotto la guida del Ministero della Salute. «La rete di sequenziamento invece, con tutti gli strumenti adeguati, risiede per lo più presso istituzioni che dipendono dal Ministero della Ricerca». Va da sé l’ulteriore sforzo nel coordinare due ambiti di gestione differenti, «con tutte le dinamiche italiane che già conosciamo».

Al netto di una variante indiana che potrebbe dunque rivelarsi non più pericolosa di quelle che già conosciamo, la strategia che ancora una volta trova grosse falle nella gestione italiana è quella della prevenzione. «Continuiamo a rincorrere piuttosto che anticipare i pericoli, e questo è triste. Stiamo lavorando a uno studio che contiamo di pubblicare presto», annuncia poi il professore. Si tratterebbe di ulteriori sottovarianti della mutazione inglese «la cui analisi ora è fondamentale. Il virus cambia, bisogna correre per anticiparlo».

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