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G8 di Genova, 20 anni dopo la tortura è ancora un metodo per la polizia penitenziaria e un tabù per la politica

19 Luglio 2021 - 05:20 Sara Menafra
Il 19 luglio del 2001 è cominciato il G8 di Genova. Tutto quello che è successo avrebbe dovuto cambiare il modo in cui le forze dell'ordine gestiscono la sicurezza pubblica. È stato davvero così?

Violenze in carcere simili ai fatti di Bolzaneto, divisioni politiche quando si tratta di individuare i responsabili, crisi economica mondiale e possibili vie d’uscita. Quello del G8 di Genova 2001 sembrava un anniversario consunto, hanno finito per parlarne tutti. La globalizzazione, in tema di spostamento delle merci e delocalizzazione perenne delle produzioni, è avvenuta e a contrastarla sono ormai solo i cosiddetti movimenti sovranisti, a loro volta sempre meno popolari e certamente poco compresi dalle giovani generazioni. La parte politica che in Italia rappresentava quelle istanze oggi ha ben poca presenza nella società. Più che per le istanze che rappresentava, la mobilitazione contro il G8 è ricordata per la repressione che la colpì in modo indiscriminato. E dunque come sono le forze dell’ordine di oggi rispetto ad allora?

In parte sono cambiate e sarebbe sciocco non ammetterlo. All’epoca dei fatti, quando il capo della Polizia di Stato era Gianni De Gennaro, la formazione pre G8 aveva riguardato esclusivamente il tema della repressione. Nell’Arma la situazione non era diversa. I carabinieri avevano costitutito le Ccir, Compagnie di Contenimento e Intervento Risolutivo con l’idea che dovessero fare quello che la Guardia Nazionale fa negli Stati Uniti quando le proteste sono troppo grosse e ingombranti (a volte anche violente): «Reprimere ed incutere un timore del tutto ingiustificato», come ha scritto la sentenza che ha parzialmente prosciolto i manifestanti che reagirono alle prime cariche del 20 luglio. La polizia in particolare ha cambiato elementi importanti, anche se su alcuni punti si è poi tornati indietro. È stata modificata la formazione dei reparti mobili inserendo il tema della gestione del conflitto. In piazza da anni l’indicazione è di cercare di evitare il fronteggiamento preferendo che a contatto coi manifestanti ci siano il più possibile oggetti, barriere fisiche, e non persone.

Quattro anni fa l’allora capo della polizia, Franco Gabrielli, disse parole non scontate soprattutto su quello che era successo alla scuola Diaz la notte del 21 luglio, quando una perquisizione in cerca di armi (ai sensi di un articolo di legge proveniente direttamente dal fascismo) si era trasformata in una “macelleria messicana”. Disse che se nel 2001 fosse stato lui il capo della polizia si sarebbe dimesso e che non era accettabile che funzionari anche importanti della polizia avessero infilato nella scuola devastata un sacchetto con 2 molotov perché il bottino della perquisizione da esporre era stato troppo magro. Prima e, in parte, dopo il suo arrivo però i procedimenti disciplinari che dovevano correrere parallelamente all’inchiesta penale, si sono invece persi e i dirigenti che erano stati condannati sono stati reintegrati. In ogni caso, non era scontato che le condanne avvenissero.

Nel corso di vent’anni, indagini che hanno rivelato violenze ce ne sono state altre, anche per carabinieri e penitenziaria e farne l’escursus richiederebbe molto altro spazio purtroppo. Ma un elemento resta: la discussione si blocca quando si tratta di far intervenire la politica, di mettere regole, di accettare che gli abusi esistono e sono frequenti e dunque servono norme chiare. È successo per carabinieri e polizia ed accade per la penitenziaria. Il parallelo tra Bolzaneto e Santa Maria Capua Vetere è stato già fatto mille volte. Le scene sono simili, il corridoio di benvenuto, le ore passate faccia al muro in posizioni innaturali che il corpo sostiene a fatica. I pestaggi brutali, gli eccessi di crudeltà sulle vittime più deboli. Con grande difficoltà è stata introdotta una legge sul reato di tortura che all’epoca di Bolzaneto non c’era e che al momento è contestata agli agenti di Santa Maria Capua Vetere. Ora vedremo se davvero, come ha notato qualcuno, è di difficile applicazione. Il premier Mario Draghi, assieme alla ministra Marta Cartabia, ha promesso una riforma. Anche qui, vedremo se avverrà.

Ma troppi elementi identificano una cultura che non è cambiata. L’idea di punire con metodi violenti chi protesta, colpendo tutti indistintamente. I metodi della punizione che, probabilmente non a caso, erano condivisi da tutti gli agenti, anche quelli che hanno dichiarato che da anni non erano più entrati nelle celle a contatto coi detenuti. Come si fa una perquisizione punitiva, però, evidentemente lo ricordavano bene. Nessuno in questo ventennio ha dunque scelto di formare gli agenti della penitenziaria a metodi diversi di gestione delle eventuali tensioni che si possano formare in prigione. Giovani e anziani, nuove leve e prossimi alla pensione, tutti sembrano aver applicato senza distinzione i metodi della vecchia scuola.

Eredità dell’epoca del G8 sono le difficoltà a identificare una chiara catena di comando. Per i fatti di Santa Maria Capua Vetere è indagato anche il provveditore alle carceri: forse ha autorizzato, forse sapeva e non ha impedito. A vent’anni di distanza dalle torture di allora, con questi ed altri elementi di continuità, ci si aspetterebbe che la condanna fosse unanime. Che la politica tutta sentisse l’urgenza di risolvere un problema che non è ancora superato e non si può più circoscrivere a “mele marce”. Che tutti sentissero l’urgenza di dire che dalla parte dei torturatori, una volta accertate le responsabilità, non ci si può sedere. E invece non accadde allora e non accade oggi. Difficile sperare che accadrà entro i prossimi vent’anni.

Foto in copertina: elaborazione di Vincenzo Monaco
Video editing: Vincenzo Monaco

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