Sul clima il G20 è stato un «successo»? Provenzale: «Finalmente si ammette che il problema esiste» – L’intervista

Il direttore dell’Istituto di Geoscienze e Georisorse del Consiglio Nazionale delle Ricerche commenta l’esito del vertice e spiega perché «rispetto a un passato di ambiguità ora viene messo nero su bianco che il problema è reale»

Mario Draghi usa parole di soddisfazione, parlando dei risultati ottenuti dal G20 che si è appena concluso a Roma per uno dei dossier più “scottanti” e più urgenti sul tavolo del summit internazionale: quello del cambiamento climatico che ora passa alla prova della Cop26 in corso a Glasgow fino al 12 novembre. «Per la prima volta il G20 si è preso l’impegno di garantire l’aumento della temperatura entro il grado e mezzo, con impegni immediati e a medio termine», ha spiegato il premier italiano, padrone di casa per quello che dalla società civile – con manifestazioni che però non hanno visto fiumi di gente scendere in piazza – resta un incontro fumoso e lontano dalla realtà. L’accordo sul clima prevede quindi un tetto massimo di 1,5 gradi e uno stanziamento di un fondo di 100 milioni per i Paesi più fragili, insieme al tracciamento di una via alla decarbonizzazione del globo. Azzerando le emissioni di carbonio «gradualmente entro il 2050, un obiettivo che prima non era previsto. Il senso di urgenza c’è ed è stato condiviso da tutti», dice Draghi.


Tutti, anche Cina e Russia. Salvo poi rendersi conto che nel documento finale viene messo nero su bianco che l’obiettivo del 2050 è stato sostituito da un vago «entro o attorno alla metà del secolo». Una mossa pragmatica per tenere dentro anche le riluttanti Cina e Russia (che hanno indicato il 2060 come possibile deadline) oppure l’evidenza dell’ennesimo accordo a metà, come ha scritto il quotidiano britannico The Guardian, citando la delusione dei Paesi africani? «Io sono ottimista, ma certo dobbiamo vedere come questi impegni verranno messi in pratica durante la Cop26 e se verranno trovati accordi pacifici», dice a Open Antonello Provenzale, direttore dell’Istituto di Geoscienze e Georisorse del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Perché «rispetto al passato, un passato di ambiguità, ora viene messo nero su bianco che il problema è reale».


Professore, Mario Draghi parla di successo per le decisioni prese dal G20 appena concluso sul dossier del cambiamento climatico. Cosa ne pensa?

«Credo sia opportuno passare da una fase di opposizione tra chi dice che il cambiamento climatico non esiste e chi pensa che il disastro sia imminente a una fase in cui si ammette che il problema esiste e si prova ad affrontarlo. Il successo c’è, perché fino a ieri mancavano anche solo le dichiarazioni di ammissione e principio».

Antonello Provenzale, direttore dell’Istituto di Geoscienze e Georisorse del Cnr

Cosa rappresentano le decisioni prese a Roma dal summit?

«Le intenzioni sono ottime. C’è convergenza da parte di tutti i paesi europei e da parte degli Stati Uniti – quindi di tutto l’occidente – sul tetto di 1,5 gradi. E anche Russia, Cina e India hanno mostrato un atteggiamento che comincia a essere differente. Penso sia importantissimo non sfondare il tetto dei 2 gradi di aumento della temperatura, quindi restare sotto il grado e mezzo dà un prezioso margine di manovra. Ora sono necessarie azioni immediate. Ed è vero, mentre Europa e Usa sono pronte ad agire, altre nazioni fanno più fatica. Ma c’è convergenza sulla teoria, sulla necessità di intraprendere seriamente questa strada. Ci sono differenze su tempi e modi, indubbiamente: per noi è più semplice dismettere o non finanziare nuove centrali, mentre nazioni come Russia, Cina e India usano molto il carbone. E questo complicherà i prossimi passaggi».

Come giudica la scadenza del 2050 come orizzonte temporale?

«In realtà la formulazione è anche più vaga, ma l’importante è che ci siano delle date e dei limiti. L’alternativa non è quella della fine del mondo, ma quella di dover gestire dei danni che diventano difficili da sostenere da un punto di vista umano ma anche economico: il costo cresce a ogni anno di ritardo. Anche la transizione energetica costa e non è facile, ma se si mettono a confronto i due costi, quello dei danni diventa insostenibile. Il rischio è di grandi instabilità sociali, ancora più drammatiche delle odierne. Pensiamo alle migrazioni o alle guerre per l’acque. Bisogna evitare di arrivare a una società fuori controllo».

A quali danni pensa in particolare?

«Principalmente a quello che accade nel ciclo dell’acqua, con alluvioni ma anche siccità più frequenti, eventi estremi più intensi, danni ai raccolti, un’agricoltura a rischio collasso e un aumento degli incendi in zone che non venivano normalmente colpite – pensiamo al Canada. In Europa, negli ultimi 30-40 anni, la precipitazione è diminuita in tutto il bacino mediterraneo. E a dirlo sono i dati, non si tratta di proiezioni: la stessa pioggia cade, ma distribuita in maniera diversa. Un altro danno è legato all’aumento del livello del mare: un aspetto drammatico per le piccole isole ma anche per le città costiere per esempio della Florida e del Mediterraneo. Onde più alte rischiano di portare a esondazioni e a un peggioramento dell’erosione costiera: anche in Italia lo sappiamo bene».

Cosa fare per ridurre le emissioni di carbone? Il G20 è andato nella direzione corretta?

«La decarbonizzazione verrà portata avanti non finanziando nuove centrali e dismettendo quelle esistenti. Bisognerebbe farlo immediatamente, ma non si può: ci vuole tempo per convertire. Cosa fare quindi nel frattempo? Bisogna passare a energie rinnovabili, ma quali? E chi sceglie come si fa a scegliere? C’è una grande discussione sullo stoccaggio della Co2 nel sottosuolo: probabilmente non potremo farne a meno, ma i mezzi di stoccaggio sono ancora costosi e non è ancora chiaro quali siano i danni ambientali. Discutiamone come compromesso accettabile in questi 30 anni di transizione, non come alibi pensando che “tanto la nascondiamo sotto terra”».

Ecco, appunto: gli alibi. L’accusa del mondo dell’ambientalismo è che mancano impegni concreti. E la stessa Greta Thunberg ha accusato ancora una volta le leadership: «Il cambiamento climatico non è una priorità per loro».

«Greta fa bene. Il famoso bla bla bla è e continua a essere il rischio. Interpretare il pensiero dei politici è difficile. Ma la sensazione è che ci sia reale preoccupazione: siamo passati da posizioni ambigue a parole chiare, anche da parte di leader europei che in passato non avevano mostrato attenzione e che ora hanno fatto dichiarazioni concrete. La Cina stessa sta prendendo delle misure importanti, ma nel suo modo: in un ambito di competizione internazionale non possono produrre energie diverse da un momento all’altro. Con Pechino, Russia e India bisogna capire cosa fare. Questo il nodo».

In copertina EPA/STEPHANIE LECOCQ | Manifestazioni in occasione della COP26 a Bruxelles, Belgio, 31 ottobre 2021.

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