L’infettivologa: «Ricoverate intere famiglie No vax, molti ci rimproverano di non trattarli bene»

Annamaria Cattelan, primario di Malattie Infettive a Padova: «Trascuriamo gli altri malati per loro»

L’infettivologa Annamaria Cattelan, primario di Malattie infettive dell’Azienda ospedaliera di Padova, dice oggi in un’intervista al Corriere della Sera che attualmente nel reparto rianimazione del suo nosocomio si ricoverano intere famiglie di No vax. «Stiamo tornando a vedere cluster familiari, sì, come nella prima ondata. Arrivano in reparto moglie e marito, padre e figlio, figli e genitori anziani, ma anche badanti assieme ai loro assistiti. Era già successo nella prima ondata, con la differenza che allora non esisteva il vaccino e quindi bastava che un componente contraesse il Covid per passarlo a tutti i parenti. Adesso il vaccino c’è, ma ci sono anche intere famiglie no vax, per le quali il tempo sembra non essere passato», dice Cattelan.


Gli altri malati «restano indietro – osserva – Stiamo trascurando da due anni i pazienti con Hiv e abbiamo rallentato molto la campagna Oms per l’eradicazione dell’epatite C. Garantiamo le urgenze con le risorse e il personale a disposizione, poca cosa visto che quasi tutto e tutti sono assorbiti dal Covid. È chiaro che una sepsi o un’endocardite hanno la precedenza, ma salta il lavoro di fino, come il follow up, gli screening, anche sui pazienti con papilloma virus. Fino a poco tempo fa avevamo degenti colpiti da Tbc, ora no, soltanto Covid…».


Tutti no vax? «Il 60% di loro: hanno tra 40 e 60 anni – spiega – E poi c’è un 40% di malati, in gran parte anziani e con co-morbilità, che ha fatto il ciclo completo anti Covid ma non ha ottenuto la risposta immunitaria desiderata». E soprattutto, c’è chi non si fida: «Controllano tutto, stanno attenti che ogni procedura sia eseguita in maniera corretta. Se si sposta la maschera dell’ossigeno e tardiamo a rimetterla a posto ci rimproverano di non trattarli bene. Oppure se li teniamo a digiuno per sottoporli a esami ci rimproverano di non trattarli bene. Sono pazienti complessi, dobbiamo gestirne la rabbia. È un doppio lavoro».

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